Intervista ad Alessandro Dal Pont

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Gabriele Landi: Ciao Alessandro, ti confesso che mi fa strano ritrovarti dopo molti anni di intense discussioni in presenza in questa forma virtuale. La prima domanda che ti vorrei fare è che importanza che ha nel tuo lavoro l’immaginario della tua infanzia?

Alessandro Dal Pont: Ciao Gabriele, ho ancora un ricordo vivido di quei primi, importanti anni di formazione a Brera, in cui ci si frequentava e confrontava assiduamente, dentro e soprattutto fuori delle aule e degli orari dell’Accademia.

Ringraziandoti per questo invito, mi piacerebbe immaginare questa conversazione, seppure a distanza, come un’opportunità per riallacciare i fili di quel discorso interrotto, anche se molte cose sono nel frattempo successe e, per quanto mi riguarda, se potessi osservarmi adesso da quel tempo lontano, mi troverei molto diverso dalla persona che avrei pensato allora di diventare.

Per rispondere alla tua domanda, inizialmente si è trattato del recupero del punto di vista del bambino, inteso come sguardo non ancora contaminato o viziato dagli approcci intellettuali, consapevoli, politici e talvolta moralistici dell’età adulta. Avevo l’impressione che quell’elemento potesse ringiovanire formalmente il lavoro assicurando un punto di osservazione non convenzionale sulle cose. In pratica, questo sguardo si traduceva nell’impiego di materiali presi in prestito dalla mia infanzia, come mattoncini Lego, palloncini gonfiati ad elio, chiocciole, diapositive di famiglia degli anni Settanta, ecc., che diventavano elementi costruttivi delle opere (e di conseguenza del mio linguaggio in formazione), per affrontare argomenti di gravità adulta, spesso di matrice esistenziale. Poi si potrebbe dire che il lavoro si è evoluto, un po’ come accade in natura, e quell’elemento originario è rimasto presente ma in modo meno esplicito, sottotraccia. 

Gabriele Landi: Il tuo lavoro, mi sembra, sia sempre propenso a creare relazioni con lo spazio in che modo ciò accade?

Alessandro Dal Pont: In effetti, che si esprima o meno in un intervento site-specific, il mio lavoro trova in genere il modo di instaurare una relazione attiva con lo spazio. Anche se lo spazio non detiene al riguardo alcuna esclusiva poiché la stessa attitudine relazionale si manifesta anche con cose, idee, concetti, contesti, persone, luoghi, tempi, ecc. Senza rinunciare alla forma, che generalmente si mantiene abbastanza semplice e definita, il mio lavoro vive e si nutre di relazioni; un po’ come accade per tutti noi, che non potremmo esistere senza coltivare rapporti di reciproco scambio in un articolato sistema di convivenza sociale.  

I miei lavori comunque, a prescindere dalla misura delle loro grandezze fisiche, non tendono tanto ad occupare o abitare lo spazio, quanto piuttosto a farlo proprio, trascinandolo all’interno del loro perimetro concettuale, come un’estensione naturale della loro dimensione immaginativa, emotiva, psicologica.

Gabriele Landi: In qualche modo ho l’impressione che tu, ogni volta che realizzi un lavoro o un ciclo di opere tendi a definirne di volta in volta una precisa iconografia? 

Alessandro Dal Pont: Mi sembra una chiave di lettura interessante, pur non avendo forse mai riflettuto in questi termini e, dunque, non avendo mai veramente analizzato il lavoro da un punto di vista iconografico. Diciamo che questo aspetto che rilevi non nasce come obiettivo consapevole ma si potrebbe piuttosto annoverare tra gli effetti collaterali imprevisti, non necessariamente indesiderati. 

In passato, comunque, c’è stato qualcuno che aveva notato una mia tendenza alla mappatura fenomenica dell’esistente, proprio, penso, per via dell’eclettismo dei temi affrontati e per la diversità dei soggetti introdotti. Soggetti che, in ogni caso, nel mio lavoro rimandano generalmente a tutt’altro. Queste osservazioni troverebbero un ulteriore fondamento se provassi ad elencare i miei lavori non per titoli ma per quei nickname con cui sono solito riferirmi ad essi: le mappe, i samurai, l’harem, la marcia (o the parade), l’orgia, il papa, the skull, the forest, the alien, ecc. Ne risulterebbe, effettivamente, un vero e proprio repertorio iconografico. 

Credo inoltre che la sensazione di iconografia che hai avuto possa in parte anche dipendere dalla struttura essenziale, per certi aspetti irriducibile, delle mie opere e dall’impiego nella loro realizzazione di elementi accuratamente scelti e già di per sé iconici. 

Il mio lavoro nasce in genere dalla sorpresa di un fortunato incontro tra il minor numero possibile di questi elementi che, se da un lato vengono introdotti senza comprometterne integrità e riconoscibilità, quasi come dei ready-made, dall’altro sono selezionati sulla base della loro capacità di relazionarsi e di generare nuovo senso diventando figure di qualcos’altro. 

Gabriele Landi: Ho visto che in alcuni lavori recenti il tuo corpo, o meglio parti di esso, sono i protagonisti di alcuni brevi video e foto puoi parlare di questi lavori?

Alessandro Dal Pont: I lavori a cui ti riferisci sono stati tutti presentati in contesti e formati espositivi non convenzionali, come mezzaterra11 – flat gallery o @ilcrepaccio Instagram show, durante questo singolare e drammatico 2020. Anche se non posso dire che siano nati in risposta diretta alla situazione di emergenza sanitaria da Covid-19, perché concepiti per la maggior parte prima dell’inizio della pandemia, conservo l’impressione che questo gruppo di lavori rifletta, con tempismo, lo spirito del tempo.  

L’uso di elementi del mio corpo e l’aspetto performativo non sono di per sé elementi nuovi nel mio lavoro, essendo già presenti e ricorrenti in opere iniziali e germinali, ma in passato essi avevano una connotazione diversa, più scultorea, di ‘elementi tra gli altri’. Ad esempio, avevo già introdotto miei capelli, peli o ciglia in relazione ad altre cose e successivamente avevo anche registrato il movimento del mio corpo con la tecnica della motion capture per un lavoro video. Mentre per quanto riguarda la componente performativa mi ero avvalso generalmente di “collaborazioni esterne”, come quelle con chiocciole o mosche (naturalmente sempre trattate col massimo rispetto e poi restituite alla libertà), oppure tramite la possibilità di attivare suoni e luci – quest’ultime anche come traduzione di un movimento congelato nel tempo – o, ancora, come già accennato, mediante l’impiego di palloncini gonfiati ad elio, spesso destinati a sgonfiarsi già durante i vernissage, come veri e propri elementi strutturali di sculture delicate e precarie, ineluttabilmente segnate dal destino di condividere una temporalità accelerata. 

Ora mi sembra che nei brevi e recenti video della miniserie in 5 episodi “lol” (2020) o in quello di “The bell tolls for no one” (2020), pensati appositamente per il formato di Instagram, ma già nella serie fotografica “Pattern Of The World” (2019), i due aspetti, quello del corpo e quello performativo, vengano a coincidere: in aperto dialogo con la riconferma di un linguaggio figurato e simbolico, una dose di humor e (auto)ironia e l’uso di stereotipi in quanto ‘oggetti trovati’, sono direttamente alcune parti del mio corpo, come mani e piedi, a prendersi la scena e a compiere delle azioni – espressioni di un rapporto più intimo con me stesso e con il micro-universo quotidiano che mi circonda. 

Gabriele Landi: I fumetti ed il loro linguaggio ricordo che ti hanno sempre affascinato. Ho visto che anni fa hai più volte geometrizzato i personaggi della Disney, conferendo loro un aspetto quasi sacro, totemico, puoi parlarne?

Alessandro Dal Pont: La passione per i fumetti, che mi ha accompagnato soprattutto dall’infanzia all’adolescenza, è stata una naturale conseguenza di quella per il disegno e ricordo infatti che, sin da piccolo, amavo, ancor più che leggerli, realizzarli: caricature, strisce, tavole, fino alla stesura di vere e proprie storie di matrice autobiografica ed interpretate da personaggi di mia invenzione. 

Era quindi altrettanto naturale che l’interesse giovanile per quel linguaggio, che per primo aveva offerto supporto ad una forte necessità di espressione e narrazione, si traducesse in un elemento del mio lavoro, come nel caso da te citato.

Le sculture, realizzate tra il 2003 e il 2005, fanno parte di un più vasto e formalmente eterogeneo gruppo di opere dello stesso periodo, accomunate dal condividere un’operazione di rilettura della popular culture americana, realizzata attraverso la libera manipolazione del suo immaginario fumettistico e, in particolare, la sua contaminazione con elementi della tradizione classica. Questo ciclo, in cui la cultura pop americana è costretta – come ha scritto Luigi Fassi – a farsi corpo storico, è culminato, trovando un suo proprio completamento, e dunque esaurendosi come possibilità, nella “Mickey Mouse Club March” (2005), una monumentale installazione composta da 22 sculture in MDF laccato con colori ricavati da fumetti degli anni Settanta e altri materiali, tra cui visori per diapositive con funzione di occhi, e presentata prima a Pescara per la mostra ‘Fuori Uso’ e in seguito anche a Milano. In questo lavoro la bidimensionalità tipica del linguaggio fumettistico si trasforma in articolata tridimensionalità scultorea, mentre le teste di un folto manipolo di personaggi Disney assumono l’aspetto ambivalente e poco rassicurante di un esercito in marcia, di kubrickiana memoria, o di un cimitero con modelli architettonici: piccoli mausolei, tombe, urne funerarie con ritratto mortuario. In un’intervista rilasciata in quel periodo avevo parlato di “un esercito che marcia verso il proprio destino, e nel procedere è già contenuto il punto d’arrivo”. 

Gabriele Landi: Anche i Samurai sono dai intendersi come una rilettura della cultura Giapponese?

Alessandro Dal Pont: Direi che i “Samurai” siano da intendersi piuttosto come una rilettura (critica) dell’idea stereotipata e superficiale, da cartone animato, che di loro si ha in Occidente. 

L’opera, intitolata nel suo insieme “La poltrona occidentale orientale” (2007) e composta da 7 sculture/ritratti essenziali di altrettanti “samurai”, intendeva porsi come un incontro/dialogo tra due culture diverse (quella orientale e quella occidentale) oltre che tra diversi materiali della scultura (vari tipi di marmo e legno, plastica, neon ecc.). Il punto di partenza del lavoro non era dunque la cultura giapponese di per sé, o i suoi iconici guerrieri – nemmeno quelli del film di Kurosawa, ricordati scherzosamente solo nel numero di sculture – ma piuttosto quella che, all’epoca, vedevo come la più recente delle loro appiattite interpretazioni occidentali: “Kill Bill”. 

Poi, ovviamente, non va dimenticato che sia la cultura americana, attraverso fumetti e telefilm, che quella giapponese, con un vero e proprio tsunami di cartoni in tv, negli anni Settanta e Ottanta avevano esercitato un’influenza dominante sull’immaginario infantile e preadolescenziale della nostra generazione. E, curiosamente, questi prodotti culturali per ragazzi si nutrivano spesso di elementi, stereotipi compresi, presi in prestito da culture diverse da quella che li aveva prodotti ed esportati. A titolo di esempio, basti pensare a quante volte le avventure narrate nelle serie televisive animate giapponesi erano ambientate in Europa. 

Gabriele Landi: In che modo la politica entra nel tuo lavoro?

Alessandro Dal Pont: Come l’aria da una finestra aperta. 

Alessandro Dal Pont (nato a Feltre nel 1972) ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera e nel 2002 ha frequentato il Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Antonio Ratti di Como. Ha esposto in numerose mostre in Italia e all’estero, tra cui: Tracce di un seminario, Viafarini, Milano (2003); Italianamente, UKS, Oslo, Norvegia (2003); Fuori Uso, Ex Cofa, Pescara (2005); Corto circuito – Coincidenze ed incontri segnici, Ex Palazzo Enel, Novara (2006); Lambretto, Lambretto Art Project, Milano (2006); IAQ – Infrequently Asked Questions, ISE Cultural Foundation, New York, USA (2007); On Metaphors, Pori Art Museum, Pori, Finlandia (2007); Soft Cell – Dinamiche nello spazio in Italia, GC.AC, Monfalcone, Italia (2008); Snooze, Scaramouche c/o Fruit and Flower Deli, New York, USA (2009); You are here, MicaMoca, Berlino, Germania (2009); Contractions, Dolomiti Contemporanee, Sass Muss, Sospirolo, Italia (2011); Italiens – Junge Kunst in der Botschaft, Ambasciata d’Italia, Berlino, Germania (2011); Alpenrepublik, Kunstraum Innsbruck, Austria (2012); #14 Alessandro Dal Pont, mezzaterra11 – flat gallery, Belluno (2020); lol, @ilcrepaccio IG show (2020). Le sue opere sono incluse in varie collezioni private e pubbliche, tra cui la Collezione Farnesina, Roma. Vive e lavora a Belluno, dove dal 2015 è co-creatore e curatore di mezzaterra11 – flat gallery.

Ritratto di Alessandro Dal Pont