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Parola d’Artista: Per la maggior parte degli artisti, l’infanzia rappresenta il periodo d’oro in cui iniziano a manifestarsi i primi sintomi di una certa propensione ad appartenere al mondo dell’arte. È stato così anche per te? Racconta.
Matteo Trentin: Penso di essermi sempre sentito vicino rispetto al mondo dell’arte, dipingendo e in particolare disegnando molto da quando ne ho ricordo, per quanto abbia iniziato a realizzare che questa propensione potesse essere per me una necessità solo verso la fine dell’adolescenza. Eppure, nell’ assenza di auto giudizio e nella libertà espressiva che ci accompagnano da bambini, avevo probabilmente già iniziato a manifestare inconsapevolmente aspetti legati al mio processo di lavoro riemersi molto tempo dopo. Ad esempio, penso a come nei primi quadri dipinti da bambino i soggetti fossero paesaggi naturali in cui l’uomo era del tutto assente, mentre nei lavori realizzati dall’accademia in avanti il focus sia proprio la figura umana, e soltanto in seguito sia riaffiorato il rapporto tra questa e il paesaggio che la ospita. In ogni caso l’infanzia è il momento dell’esistenza a cui, attraverso il recupero di immagini che ne rievocano il ricordo, faccio più spesso riferimento.
Pd’A: Anche tu, come tanti, hai avuto un primo amore artistico?
MT: Appena entrato in accademia di belle arti, i primi artisti che ho avuto come riferimento sono stati i pittori espressionisti, in particolare gli austriaci e la tedesca Kathe Kollwitz. L’incontro che più mi ha influenzato e che sento continua tuttora a interessare la mia ricerca è però arrivato più tardi, e riguarda l’artista concettuale francese Christian Boltanski. A partire dal momento in cui sono venuto a conoscenza del suo lavoro tramite il mio docente di pittura, verso la fine del percorso di studi, non ho infatti mai smesso di trovarvi un affinità linguistica, a livello sia formale che poetico, nonostante la distanza generazionale e la peculiarità di tale pratica. Trovo significativo il fatto che quest’ultima, a partire da una premessa sempre pittorica, si sia poi sviluppata attraverso l’utilizzo e la stratificazione di media e testimonianze oggettuali e quotidiane differenti (in particolare fotografie), combinate all’interno di interventi d’assemblage e installativi da parte dell’autore, che si autodefiniva un expressionniste émotionnelle. Con la sensibilità di un espressionista che porta ad emergere l’aspetto emozionale e poetico della dimensione interiore, egli torna infatti ciclicamente ad affrontare le tematiche di memoria individuale e collettiva, tempo, ed identità, che sono pure al centro del mio lavoro.
Pd’A: Puoi descrivere il tuo processo di lavoro?
MT: Pur avendo sempre dipinto, il mio processo di ricerca è iniziato circa sei anni fa proprio a partire dalla volontà di dipingere dei ritratti interiori, che al tempo stesso corrispondessero a dei “non volti”, a delle ombre in cui potenzialmente chiunque avesse modo di identificarsi. Ho presto realizzato che questi visi erano legati a ricordi personali, in particolare alla dimensione intima e al tempo stesso collettiva in cui ci proiettano le fotografie vernacolari che ci precedono di due, talvolta tre generazioni, e che spesso possiamo incontrare nei nostri album fotografici familiari. Ho così iniziato a recuperare, scansionare e ri-stampare immagini della mia famiglia, di quella di mia madre e di mia nonna, e a sovrapporvi delle pellicole in poliestere che diventavano così supporto per degli interventi pittorici, nel tentativo di richiamare il filtro del tempo che si pone tra noi e la memoria. In questi lavori mi è sempre interessato infatti che la pittura fosse l’elemento alla base di un processo di stratificazione, in parte coprendo e sintetizzando aspetti delle immagini (e in particolare delle figure) che le rendevano a me riconoscibili, e al tempo stesso evidenziandone i tratti essenziali: un tentativo di conservare visivamente le presenze che abitano i nostri ricordi, senza poter evitare di attraversare, almeno in parte, la dimensione della perdita che sempre riguarda il passato. Il diluente ad olio ha iniziato così a diventare per me combustibile da utilizzare per innescare una pratica di sparizione, cancellando parte dell’immagine attraverso scie di nerofumo lasciate da
una candela in cera di paraffina, e facendone emergere altri elementi tramite “dripping” dello stesso materiale sul supporto. Ho poi cercato di declinare questo processo in diverse forme, a volte stampando l’immagine direttamente sul poliestere, altre sul plexiglass, e a realizzare composizioni a tre moduli parzialmente sovrapposti in cui i differenti gradi di trasparenza dei primi due supporti dialogavano con l’opacità della carta. Mi interessa quindi l’apparente evanescenza e tendenza a dissolversi non soltanto del soggetto, ma anche della superficie su cui questo si imprime. Ultimamente sto infatti considerando la possibilità che sia la paraffina stessa a diventare il supporto del lavoro, in particolare attraverso due serie di interventi. La prima consiste in alcune tele dove vado a ricreare attraverso la pittura fotografie che appartengono al mio archivio personale, rendendole sospese e non più totalmente riconoscibili pure grazie alla sovrapposizione di una strato finale in cera. La seconda è composta da alcune sculture di piccole dimensioni ottenute facendo colare della paraffina all’interno di coperchi per barattoli da conserva, utilizzati come calchi e contenenti al centro delle fotografie in formato foto tessera in cui il paesaggio ha uno spazio importante. Il costante interesse per la cera industriale, il materiale che ritorna più spesso nel corso del processo, è legato sia al valore simbolico e rituale che esso riveste nell’immaginario occidentale in relazione alla funzione socio-culturale del ricordare, sia alla sua struttura chimica, soggetta a rapidi passaggi di stato se esposta a lievi variazioni di temperatura, e caratterizzata da un aspetto semitrasparente. Quando mi interessa lavorare ancora più a stretto contatto con gli spazi in cui intervengo, lasciando la possibilità al loro potere evocativo di agire, smetto di presentare immagini, o meglio le riduco a superfici riflettente. In un’installazione recente questa operazione è accompagnata inoltre dall’emissione di un suono a ciclo continuo.
Si tratta quindi di un processo di lavoro non univoco, ma frammentato e dato dalla stratificazione di più livelli, in un’accezione sia formale che poetica, che per questo spesso vado a indicare con il termine Per(e)sistenza Di Frammenti (PDF): l’acronimo del termine, corrispondente al formato di esportazione dei file digitali per la stampa, si riferisce al cortocircuito secondo cui il tentativo di conservazione su cui tutto il lavoro è basato si traduce in una serie di immagini rielaborate digitalmente. I concetti che più ritornano sono la crisi della memoria e la relativa frammentazione dell’identità, che per essere ricostituita a partire dalla sfera individuale necessita di scambi, e quindi di attraversare una dimensione collettiva, di porsi al confine tra il sé e l’altro, di dialogare con i luoghi che ne hanno ospitano i ricordi. E ugualmente, penso ai miei lavori come a interventi che si pongono al confine tra uno spazio interiore e un ambito di condivisione collettiva, legati a e volti a riattivare contesti spaziali e temporali di transito, degli interstizi. La forma stessa con cui queste forme si presentano si colloca al crocevia tra linguaggi differenti, che dialogano tra loro. È proprio per questo motivo che pure la dimensione relazionale e del dialogo con altre ricerche ed artisti, oltre che con differenti tecniche e materiali, è per me essenziale.
Pd’A: Per i tuoi dipinti parti da delle fotografie?
MT: In alcuni casi può essere che, per costruire un’immagine in forma più libera, parta da un disegno o da un pensiero astratto. Ad ogni modo, nella maggior parte delle situazioni il riferimento iniziale sono delle fotografie.
Pd’A: Che origine hanno queste immagini?
MT: Si tratta principalmente di foto provenienti da archivi familiari, quindi di immagini trovate e non realizzate scattando in prima persona. In particolare, vado ad utilizzare un archivio personale composto da fotografie selezionate tra quelle conservate nei miei album di famiglia, e che mi sono state tramandate direttamente da mia madre, da mio padre o dai loro genitori. Altre volte lavoro con immagini anonime, recuperate spesso in mercatini delle pulci situati nel territorio da cui provengo o in luoghi visitati durante dei viaggi, più
raramente provenienti da archivi digitali. La selezione delle fotografie, nel caso la loro derivazione sia familiare, è legata al valore significativo che possono rivestire i ricordi cristallizzati al loro interno in relazione ai concetti di memoria, identità, relazione sé-altro, anche se non sono stati vissuti in prima persona. Quando le foto hanno un’origine anonima invece, la loro selezione è in buona parte arbitraria e dovuta essenzialmente all’affinità che posso trovarvi a livello di contestualizzazione spazio-temporale, soggetto e composizione con le fotografie personali. Soltanto in alcuni casi isolati fotografo in prima persona, in genere quando devo lavorare sull’identità di luoghi con cui non sono mai stato in contatto: raccogliere tracce visive del mio passaggio al loro interno diventa così per me una prima forma attraverso cui iniziare ad entrare in dialogo con questi.
Pd’A: Ti interessa l’idea di archiviare il materiale che impieghi se si con che scopo?
MT: Archiviare il materiale che utilizzo mi è sempre interessato molto, sia come possibilità di restituzione del processo che come ulteriore forma espressiva. Essendo tutto il lavoro vòlto a riflettere sul tema del ricordare come pratica di ricostruzione identitaria e di comunità (in un certo senso pertanto relazionale), ne risulta spontaneo un tentativo alla base non soltanto di tenere vive le tracce di memoria da cui ha origine, ma di renderle inoltre elemento di condivisione. Questo scambio spesso porta con sé un’apertura a differenti possibilità di lettura dei materiali fotografici alla base del processo, raccolti e presentati all’interno di un album fotografico che è al tempo stesso libro d’artista, ed in cui l’accostamento delle pagine pone in dialogo ritratti familiari e di sconosciuti. L’ordine di raccolta di queste immagini non è cronologico, ma suggerito da corrispondenze a livello compositivo, tematico e di riferimento ad un determinato contesto storico e spaziale, e rimanda ad una sequenza temporale circolare più che lineare. Il raccoglitore che utilizzo come strumento di presentazione di questo archivio è infatti costantemente aggiornato, andando ad esempio a ospitare talvolta differenti prove di stampa in seguito a post-produzione o rielaborazione pittorica di un’immagine già archiviata precedentemente, e diviene così dispositivo di archiviazione aperta.
Pd’A: Ti interessa raccontare delle storie?
MT: Penso che la mia tendenza ad archiviare le fotografie con cui lavoro derivi proprio dall’ interesse nel raccontare piccoli aneddoti di vita quotidiana, riguardanti persone comuni e tendenti in genere ad essere dimenticati. Nel momento in cui si va però a restituire tracce di queste storie personali come se appartenessero a sconosciuti, accostate inoltre a testimonianze anonime, anche la narrazione altrui può diventare familiare, e viceversa. In questo modo le micro narrazioni individuali che ciascuno custodisce possono aprirsi ad una dimensione compartecipata ed immaginifica, instaurando scambi proprio attraverso la forma racconto: si tratta di dispositivi relazionali, attivabili non soltanto per mezzo delle immagini narrate, ma pure tramite l’attraversamento dei luoghi che le ospitano ed il potere evocativo della parola che vi dà vita.
Pd’A: Il disegno ha una qualche importanza nel tuo processo di lavoro?
MT: Se la pittura rappresenta per me il linguaggio che più riaffiora nella restituzione finale dei lavori, il disegno è la loro premessa in fase progettuale. Pur essendo in genere i documenti che utilizzo come riferimento iniziale per concepire i lavori delle immagini fotografiche, le modalità secondo cui utilizzare e mettere in dialogo queste con altri elementi in fase di formalizzazione mi si presentano spesso in forma spontanea proprio disegnando. Con una semplice metafora, potrei dire che, se penso al mio lavoro come ad un organismo, l’elemento anatomico più superficiale e percepibile ad un primo impatto visivo – in quanto riveste e tiene insieme, talvolta pure limitando nel loro manifestarsi, gli altri elementi – è la pittura, lo strato epidermico; dovendo però individuare la struttura di sostegno, che per prima dà forma e dimensione al
corpo nella sua totalità, per quanto essenziale e quasi mai visibile, quella corrisponde al disegno, lo scheletro o anima del processo.
Pd’A: Che ruolo ha la luce nel tuo lavoro?
MT: La luce riveste una posizione significativa nel mio lavoro, sotto diversi aspetti. A livello compositivo e formale la sua presenza costituisce un elemento fondativo, sia delle immagini recuperate che tratto come objects trouvés per poi andarle a rielaborare, sia degli esiti di queste riconfigurazioni. Nel primo caso, trattandosi perlopiù di fotografie analogiche e spesso in bianco e nero, l’esposizione luminosa rappresenta una qualità dell’immagine che contribuisce ad attribuirvi un carattere di sospensione e latenza (e quindi apertura alla possibilità di essere sublimata in altro) che ricerco e mi influenza sempre nella scelta di una foto piuttosto che di un’altra. In un secondo momento, è quindi proprio la quantità di luce una delle peculiarità da cui mi interessa partire per realizzare una rivisitazione del ricordo fotografico, mettendola in risalto: quando utilizzo una fotografia trovata come materiale da stampare su un altro supporto per poi agire su questo attraverso pittura, combustione e paraffina, spesso prima della fase di stampa vi applico un intervento di manipolazione digitale, abbassando la saturazione. La luminosità della matrice fotografica è così esasperata, assumendo in qualche modo una connotazione pittorica ulteriormente resa centrale nel corso della rielaborazione finale dell’immagine, sia per opposizione (attraverso l’utilizzo di colore dai toni tendenzialmente scuri e freddi, oltre che della combustione) che per armonia e mimetismo (in particolare tramite la stratificazione della paraffina, con cui mi interessa sempre creare giochi di luce attraverso dialoghi tra trasparenze – quasi in velatura – e pienezza del bianco, oltre che l’utilizzo di supporti semitrasparenti come il poliestere rotoscopico ed il plexiglass).
Per finire, sono interessato ad inserire la luce pure all’interno degli ambienti in cui vado a intervenire facendola apparire come un elemento da ricercare, data la sua carenza, in contesti spaziali dove tende ad essere dominante la penombra. Questa operazione vuole essere un invito a proiettarsi in una dimensione introspettiva, dove il recupero del ricordo a cui tende la luce porta sempre con sé un processo di sintesi, e può avvenire solo passando attraverso la penombra.
Pd’A: Ti interessa la dimensione pittorica?
MT: Prima ancora che interessarmi, penso che la dimensione pittorica mi riguardi, che mi accompagni sempre ed emerga anche in momenti del processo di lavoro in cui ho la percezione di esservi calato meno che in altri. Per quanto infatti mi interessi sempre il confronto con linguaggi diversi (come l’appropriazione e il riutilizzo di materiale d’archivio fotografico, l’installazione o il suono), ed abbia la tendenza a portarmi oltre la superficie bidimensionale del quadro, la pittura riaffiora sempre nel mio lavoro, pure semplicemente a livello di atmosfera. Ultimamente, in ogni caso, sto cercando di portare avanti una sintesi legata al processo di lavoro in cui la processualità del dipingere riveste uno spazio importante. In questi interventi, e in genere nel mio modo di approcciare la pittura, l’immagine emerge per stratificazione di velature, e di passaggi tonali in cui il colore è molto diluito. La tendenza a procedere stratificando è visibile pure attraverso sfumature e segni grafici ottenuti cancellando o comunque raschiando parte delle campiture stese precedentemente con una pezza. I colori che più ritornano sono le terre, in particolare la terra d’ombra, il giallo di Napoli rossastro ed il grigio di payne, e più in generale i mezzi toni (accentuati dalla stesura finale di paraffina che vi si sovrappone, suggerendo una tendenza al monocromo).
Pd’A: Che importanza hanno le categorie di tempo e spazio in quello che fai?
MT: Il riferimento alle categorie di tempo e spazio costituisce un aspetto senza il quale la mia ricerca non potrebbe abbracciare la dimensione del racconto che ho descritto poco prima, ed a cui attribuisco una particolare importanza proprio perché mi consente di attivare scambi (e quindi connessioni) tra persone e contesti differenti, al di là delle divisioni storiche o geografiche. Pensando alla sfera temporale che abita il mio lavoro proprio come a una sequenza narrativa, come già accennato si tratta di un susseguirsi più ciclico che lineare, riguardante un lasso di tempo della durata indicativa di un secolo, a partire dagli anni venti del Novecento fino ad arrivare ai giorni nostri. Questa durata comprende le ultime tre generazioni a cui appartengono le testimonianze fotografiche utilizzate come primo riferimento visivo nei miei progetti, le quali, se non mi sono state tramandate direttamente da persone appartenenti ad uno di questi gruppi generazionali, vengono selezionate tra una serie di documenti legati agli stessi anni. I momenti storici che ritornano più di frequente sono il primo ed il secondo dopoguerra, ed in genere i periodi della ricostruzione in Europa in seguito a conflitti che ne hanno ridefinito gli equilibri a livello sociale, culturale e geopolitico, a partire dai suoi confini. Si tratta di cicli cronologici che potrebbero essere definiti come delle palingenesi, termine con cui i filosofi stoici (in particolare Eraclito) indicavano la rigenerazione dell’universo in seguito alla sua ekpyrosis, o dissoluzione nel fuoco, elemento che rientra pure a livello formale nella mia pratica.
L’aspetto della ciclicità emerge inoltre dall’utilizzo di alcune immagini sempre ricorrenti nella realizzazione dei progetti, per quanto configurate in forme di volta in volta differenti, mentre altre fotografie archiviate rimangono in attesa di un’ulteriore destinazione, e porta a sua volta con sé il riferimento ad una serie di luoghi per me significativi. Si tratta ancora una volta di spazi (spesso giardini domestici o sentieri privati) famigliari e legati ai miei ricordi d’infanzia, ma confinanti e posti in dialogo con un ambiente naturale più esteso e accessibile a chiunque. Il riferimento a questa dimensione spaziale intima, ma al tempo stesso di confine e aperta ad un contesto pubblico è presente nella mia modalità di confrontarmi con i luoghi in cui intervengo in chiave installativa: essa si traduce in un interesse per ambienti caratterizzati da una posizione marginale e raccolta, privi di una particolare visibilità all’interno dei contesti urbani che li ospitano, e al tempo stesso aventi una connotazione sociale (come appunto parchi e giardini) o spazi ex industriali, piuttosto che luoghi in cui si mantiene visibile la loro relazione con il passato. Sono infatti sempre attratto dalla possibilità di attivare nuovamente questi siti attraverso operazioni artistiche di mimesi, volte ad inserirsi al loro interno confondendosi con gli aspetti che più ne sono distintivi e facendoli emergere spontaneamente, piuttosto che ad appropriarsene.
Pd’A: Quando devi fare una mostra ti interessa l’idea di messa in scena del lavoro?
MT: Più che la messa in scena, mi interessa il concetto di riattivazione del processo di lavoro in relazione al contesto in cui vado ad intervenire, restituendo e ponendo gli interventi che lo costituiscono in dialogo agli spazi che li accolgono in una forma il più possibile sincera e spontanea, come quando questa si manifesta per la prima volta all’interno dello studio. Ciò non corrisponde necessariamente alla volontà di far apparire anonimo e asettico l’ambiente espositivo così che possa farsi contenitore ideale dell’opera, quanto piuttosto ad un interesse nell’individuare gli elementi di contatto e di risonanza tra questa ed i luoghi che la ospitano.
Pd’A: Che importanza ha la relazione che si viene a creare fra i vari lavori che decidi di esporre insieme?
MT: Anche il dialogo tra i diversi lavori esposti all’interno di uno stesso contesto è per me essenziale e suggerisce un percorso che dal punto di vista della cronologia secondo cui è stato realizzato ogni intervento ancora una
volta non mai è lineare, ma sempre ciclico, e procede per sottrazione di elementi. Questa sintesi riguarda il grado di stratificazione e la complessità a livello sia linguistico, sia di composizione cromatica e segnica, e si fa tanto più accentuata quanto più ci si porta con lo sguardo verso la luce.
Pd’A: Quando dipingi ti concentri su un solo dipinto o ne realizzi più di uno simultaneamente?
MT: Spesso lavoro in serie, realizzando più lavori contemporaneamente, anche se pure in queste situazioni si verificano dei momenti nel corso del processo in cui sento la necessità di focalizzarmi su un unico pezzo. Questo accade in particolare quando lavoro alla stratificazione pittorica delle figure umane, soffermandomi sui volti. In genere comunque è il singolo progetto, con i tempi che richiede ed in genere le urgenze che presenta, a suggerirmi come procedere nel corso della sua realizzazione.
Pd’A: Che idea hai della bellezza?
MT: Se penso al concetto di bellezza (tenendo comunque in considerazione la complessità che può rappresentare il darne una definizione in quanto portatore di un numero di significati estremamente ampio, molti dei quali potenzialmente in contrasto tra loro) questo mi ha sempre rimandato alla portata esistenziale che si cela dietro a un’immagine, una situazione o un racconto. Più precisamente, ritengo che essa corrisponda alla capacità, insita in quella determinata visione, storia o contesto, di rimanere autentica e al tempo stesso sospesa tra l’affermazione di sé e l’apertura a divenire altro (e, di conseguenza, a differenti possibilità interpretative). Quindi potrei dire che riconduco la bellezza ad un principio di latenza, un aspetto che a sua volta ho sempre percepito come profondamente esistenzialista.
Pd’A: Le opere d’arte esistono secondo te se non c’è nessuno che le guarda?
MT: Mi riconnetto al discorso precedente partendo dal fatto che ho sempre pensato all’opera d’arte come ad una forma di espressione che, per essere definita tale, deve avere alla base una necessità esistenziale, un’urgenza, prima ancora che una volontà di esibire o essere esibita. Penso ad un breve trattato scritto dall’architetto del paesaggio francese Gilles Clément, secondo cui l’arte – in alcune sue manifestazioni spontanee riscontrabili all’interno di contesti naturali – può perfino essere involontaria, e di conseguenza totalmente svincolata nel suo stesso costituirsi da una coscienza legata alla possibilità o meno della sua fruizione. Il testo intende infatti mostrarci come, per chi sappia osservare, l’arte possa essere ovunque, e personalmente ritengo che, per quanto culturalmente siamo portati a pensare che le sue manifestazioni debbano per prime concedersi alla nostra vista, spesso essa vada ricercata, in particolare quando si dà nella sua forma più autentica (e per questo non sempre chiaramente visibile ad un primo sguardo).
Pd’A: Qual è la sua posizione rispetto al suo lavoro?
MT: Il mio modo di pormi rispetto al lavoro, così come i materiali e i linguaggi che lo compongono, non è univoco ma frammentato, e si manifesta in forme differenti a seconda della fase che sta attraversando e delle urgenze che si trova ad affrontare il processo di ricerca da cui scaturisce. Sicuramente una delle tendenze che emerge per prima in questo senso è quella a porsi in un atteggiamento di osservazione, che a sua volta porta con sé il bisogno di andare oltre la superficie, scavando per ritornare all’origine di determinati fenomeni su cui mi interrogo. Da questo punto di vista a volte mi sembra di lavorare come un archivista che tra i suoi registri ricerca traccia di momenti passati, i quali hanno apparentemente perso ogni connessione con il presente ma possono essere necessari a comprenderlo. In altre situazioni ho l’impressione di lavorare come un animatore che porta avanti un processo di tracciatura su pellicola digitale, ed è il motivo per cui quando devo stampare fotografie recuperate su un supporto semitrasparente utilizzo il poliestere da rotoscoping (tecnica nata a metà degli anni dieci del Novecento nell’ambito del cinema di animazione proprio per “animare”l’immagine a partire dal ricalco di filmati reali). In altri momenti ancora mi sento più vicino ad un ricercatore che opera in ambito sociale, anche se nel rapportarmi a questo – e allo stesso modo nelle altre situazioni appena descritte – ho a disposizione soltanto i mezzi artistici con cui lavoro comunemente. Ed è proprio il linguaggio artistico che ho incontrato per primo, la pittura – per quanto questa possa assumere connotazioni differenti all’interno del processo di lavoro – ad essermi d’aiuto nel riempire gli spazi vuoti tra i vari ambiti d’interesse, ponendoli in relazione e ricostruendo connessioni a partire dai singoli frammenti.
Matteo Trentin, nato a Schio (in provincia di Vicenza) nel 1996, è un artista visivo che vive e lavora tra Schio, Padova e Venezia
Nel 2019 ottiene il diploma accademico di I Livello in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti G. B. Cignaroli di Verona.
Tra il 2020 ed il 2022 partecipa a varie esposizioni collettive, nazionali ed internazionali, e co-fonda, insieme a Marzio Savio e ad Andrea Marini, il collettivo artistico Proiezioni Sonore.
Nel 2023 consegue il diploma accademico di II Livello in Arti Visive – indirizzo Pittura – presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, con una tesi sull’archivio di memoria inteso come linguaggio artistico contemporaneo, scrive il Manifesto di Ri(de)costruzione e partecipa al programma di residenza per giovani artisti presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia.
Nel 2024 inizia a svolgere l’attività di tutor esterno nell’ambito delle lezioni di Pittura per i bienni ed i trienni tenute da Nemanja Cvijanovic presso l’atelier Giudecca 212 in Accademia di Belle Arti a Venezia che porta tutt’ora avanti, partecipa al progetto Meeting Gardens 2024 a cura di Ife collective ed entra a far parte dell’atelier collettivo e artist run space Unobis a Padova, dove ha attualmente sede il suo studio e si è appena svolta una presentazione della sua ricerca nell’ambito della rassegna Dlin Dlon.
English text
Interview to Matteo Trentin
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Parola d’Artista: For most artists, childhood is the golden age when the first symptoms of a certain propensity to belong to the art world begin to appear. Was that the case for you too? Tell us.
Matteo Trentin: I think I have always felt close to the world of art, painting and in particular drawing a lot since I can remember, although I only began to realise that this propensity could be a necessity for me towards the end of adolescence. Yet, in the absence of self-judgement and expressive freedom that accompany us as children, I had probably already begun to unconsciously manifest aspects related to my work process that re-emerged much later. For example, I think of how in the first paintings I did as a child, the subjects were natural landscapes in which man was completely absent, while in the works I did from the academy onwards, the focus is on the human figure, and only later did the relationship between this figure and the landscape that hosts it re-emerge. In any case, childhood is the moment of existence to which, through the retrieval of images that evoke its memory, I refer most often.
Pd’A: Did you, like many, have a first artistic love?
MT: As soon as I entered the academy of fine arts, the first artists I had as a reference were the expressionist painters, particularly the Austrians and the German Kathe Kollwitz. However, the encounter that most influenced me and that I feel still continues to influence my research came later, and concerns the French conceptual artist Christian Boltanski. From the moment I became aware of his work through my painting teacher, towards the end of my studies, I have in fact never ceased to find a linguistic affinity with him, both on a formal and poetic level, despite the generational distance and the peculiarity of this practice. I find it significant that the latter, starting from a premise that was always pictorial, was then developed through the use and layering of different media and testimonies of objects and everyday life (in particular photographs), combined within assemblage and installation interventions by the author, who described himself as an expressionniste émotionnelle. With the sensitivity of an expressionist who brings out the emotional and poetic aspect of the inner dimension, he cyclically returns to the themes of individual and collective memory, time, and identity, which are also at the centre of my work.
Pd’A: Can you describe your working process?
MT: Although I have always painted, my research process began about six years ago with the desire to paint interior portraits, which at the same time corresponded to ‘non-faces’, to shadows with which anyone could potentially identify. I soon realised that these faces were linked to personal memories, in particular to the intimate and at the same time collective dimension into which vernacular photographs project us, which precede us by two, sometimes three generations, and which we can often find in our family photo albums. I thus began to recover, scan and re-print images of my family, my mother’s and my grandmother’s, and to superimpose polyester films on them, thus becoming a support for pictorial interventions, in an attempt to recall the filter of time that stands between us and memory. In these works, I have always been interested in painting being the element at the basis of a layering process, partly covering and synthesising aspects of the images (and in particular the figures) that made them recognisable to me, and at the same time highlighting their essential features: an attempt to visually preserve the presences that inhabit our memories, without being able to avoid crossing, at least in part, the dimension of loss that always concerns the past.
The oil thinner thus began to become fuel for me to trigger a practice of disappearance, erasing part of the image through trails of carbon black left by a paraffin wax candle, and making other elements emerge through ‘dripping’ of the same material onto the support. I then tried to decline this process in different forms, sometimes by printing the image directly on polyester, others on plexiglass, and to create compositions of three partially overlapping modules in which the different degrees of transparency of the first two supports dialogued with the opacity of the paper. I am therefore interested in the apparent evanescence and tendency to dissolve not only of the subject, but also of the surface on which it is impressed. Lately I have in fact been considering the possibility of paraffin itself becoming the support for the work, in particular through two series of interventions. The first one consists of some canvases where I recreate through painting photographs that belong to my personal archive, making them suspended and no longer totally recognisable even through the superimposition of a final wax layer. The second is made up of some small sculptures obtained by pouring paraffin inside canning jar lids, used as casts and containing at their centre passport-size photographs in which the landscape plays an important role. Il costante interesse per la cera industriale, il materiale che ritorna più spesso nel corso del processo, è legato sia al valore simbolico e rituale che esso riveste nell’immaginario occidentale in relazione alla funzione socio-culturale del ricordare, sia alla sua struttura chimica, soggetta a rapidi passaggi di stato se esposta a lievi variazioni di temperatura, e caratterizzata da un aspetto semitrasparente. Quando mi interessa lavorare ancora più a stretto contatto con gli spazi in cui intervengo, lasciando la possibilità al loro potere evocativo di agire, smetto di presentare immagini, o meglio le riduco a superfici riflettente. In un’installazione recente questa operazione è accompagnata inoltre dall’emissione di un suono a ciclo continuo.
Si tratta quindi di un processo di lavoro non univoco, ma frammentato e dato dalla stratificazione di più livelli, in un’accezione sia formale che poetica, che per questo spesso vado a indicare con il termine Per(e)sistenza Di Frammenti (PDF): l’acronimo del termine, corrispondente al formato di esportazione dei file digitali per la stampa, si riferisce al cortocircuito secondo cui il tentativo di conservazione su cui tutto il lavoro è basato si traduce in una serie di immagini rielaborate digitalmente. I concetti che più ritornano sono la crisi della memoria e la relativa frammentazione dell’identità, che per essere ricostituita a partire dalla sfera individuale necessita di scambi, e quindi di attraversare una dimensione collettiva, di porsi al confine tra il sé e l’altro, di dialogare con i luoghi che ne hanno ospitano i ricordi. The concepts that return the most are the crisis of memory and the relative fragmentation of identity, which in order to be reconstituted from the individual sphere needs to be exchanged, and thus to cross a collective dimension, to place itself on the border between the self and the other, to dialogue with the places that host its memories. Equally, I think of my works as interventions that stand on the border between an inner space and a collective sharing sphere, linked to and aimed at reactivating spatial and temporal contexts of transit, of interstices. The very form in which these forms are presented lies at the crossroads between different languages, which dialogue with each other. It is precisely for this reason that the relational dimension and dialogue with other research and artists, as well as with different techniques and materials, is also essential for me.
Pd’A: Do you start from photographs for your paintings?
MT: In some cases it may be that, in order to construct an image in a freer form, I start from a drawing or an abstract thought. In any case, in most situations the initial reference is photographs.
Pd’A: What is the origin of these images?
MT: They are mainly photos from family archives, so they are found images and not taken by taking them myself. In particular, I use a personal archive made up of selected photographs from my family albums, which were handed down to me directly from my mother, father or their parents. At other times I work with anonymous images, often found in flea markets in the area where I come from or in places I have visited on trips, more rarely from digital archives.
rarely from digital archives. The selection of photographs, if their derivation is familiar, is linked to the significant value that the memories crystallised within them can have in relation to the concepts of memory, identity, and the relationship between self and other, even if they have not been experienced personally. When the photos have an anonymous origin, on the other hand, their selection is to a large extent arbitrary and essentially due to the affinity that I can find in terms of spatial-temporal contextualisation, subject matter and composition with personal photographs. Only in a few isolated cases do I photograph in the first person, usually when I have to work on the identity of places I have never been in contact with: collecting visual traces of my passage through them thus becomes for me a first form through which I can begin to enter into dialogue with them.
Pd’A: Are you interested in the idea of archiving the material you use, if so for what purpose?
MT: Archiving the material I use has always interested me a lot, both as a possibility of restitution of the process and as a further form of expression. Since all the work is aimed at reflecting on the theme of remembering as a practice of identity and community reconstruction (in a certain sense, therefore relational), it results spontaneously in an underlying attempt not only to keep alive the traces of memory from which it originates, but also to make them an element of sharing. This exchange often brings with it an openness to different interpretations of the photographic materials at the basis of the process, collected and presented in a photo album that is at the same time an artist’s book, and in which the juxtaposition of pages sets up a dialogue between portraits of family and strangers. The order in which these images are collected is not chronological, but suggested by correspondences at the level of composition, theme and reference to a specific historical and spatial context, and refers to a circular rather than linear temporal sequence. The binder I use as a presentation tool for this archive is in fact constantly updated, sometimes hosting different proofs following post-production or pictorial reworking of a previously archived image, and thus becomes an open archiving device.
Pd’A: Are you interested in telling stories?
MT: I think my tendency to archive the photographs I work with stems precisely from my interest in telling small anecdotes of everyday life, concerning ordinary people and tending to be forgotten. However, the moment one goes on to return traces of these personal stories as if they belonged to strangers, juxtaposed, moreover, with anonymous testimonies, the narration of others can also become familiar, and vice versa. In this way, the individual micro-narratives that each person keeps can open up to a shared and imaginative dimension, establishing exchanges precisely through the narrative form: these are relational devices that can be activated not only by means of the narrated images, but also through the crossing of the places that host them and the evocative power of the word that brings them to life.
Pd’A: Does drawing have any importance in your working process?
MT: If painting is for me the language that most resurfaces in the final restitution of works, drawing is their premise in the design phase. Although the documents I use as an initial reference to conceive the works are generally photographic images, the ways in which I can use these and put them into dialogue with other elements in the formalisation phase often present themselves to me in a spontaneous form precisely by drawing. With a simple metaphor, I could say that if I think of my work as an organism, the most superficial and perceptible anatomical element at first glance – as it covers and holds together, sometimes even limiting the manifestation of the other elements – is the paint, the epidermal layer.
body as a whole, however essential and almost never visible, that corresponds to the drawing, the skeleton or soul of the process.
Pd’A: What role does light play in your work?
MT: Light plays a significant role in my work in several ways. On a compositional and formal level, its presence is a founding element, both of the recovered images that I treat as objects trouvés and then rework them, and of the outcomes of these reconfigurations. In the first case, since they are mostly analogue and often black and white photographs, light exposure represents a quality of the image that contributes to attributing to it a character of suspension and latency (and thus openness to the possibility of being sublimated into something else) that I always seek out and influence me in my choice of one photo rather than another. Therefore, it is precisely the amount of light that is one of the peculiarities I am interested in starting from in order to realise a reinterpretation of the photographic memory, highlighting it: when I use a photograph found as material to be printed on another support and then act on it through painting, combustion and paraffin, I often apply a digital manipulation intervention to it before the printing phase, lowering the saturation. The brightness of the photographic matrix is thus exasperated, somehow assuming a pictorial connotation further centralised during the final reworking of the image, both by opposition (through the use of colour with tendentially dark and cold tones as well as combustion) and by harmony and mimicry (in particular through the layering of paraffin, with which I am always interested in creating plays of light through dialogues between transparencies – almost in veiling – and the fullness of white, as well as the use of semi-transparent supports such as rotoscopic polyester and Plexiglas).
Lastly, I am interested in inserting light also within the environments in which I am going to intervene, making it appear as an element to be sought, given its deficiency, in spatial contexts where penumbra tends to be dominant. This operation is meant to be an invitation to project oneself into an introspective dimension, where the recovery of the memory to which light tends always brings with it a process of synthesis, and can only take place by passing through the penumbra.
Pd’A: Are you interested in the pictorial dimension?
MT: Even before being interested in it, I think that the pictorial dimension concerns me, that it always accompanies me and emerges even in moments of the working process in which I have the perception that I am less immersed in it than in others. In fact, as much as I am always interested in confronting different languages (such as the appropriation and reuse of photographic archive material, installation or sound), and I have a tendency to take myself beyond the two-dimensional surface of the painting, painting always reappears in my work, even if only at the level of atmosphere. Lately, however, I have been trying to pursue a process-related synthesis in which the processuality of painting plays an important role. In these interventions, and generally in my approach to painting, the image emerges through layering of glazes, and tonal passages in which the colour is very diluted. The tendency to proceed by layering is also visible through shading and graphic marks obtained by erasing or at least scraping off part of the previously laid out backgrounds with a patch. The colours that reappear most are the earth colours, in particular terra d’ombra, reddish Naples yellow and payne’s grey, and more generally the half tones (accentuated by the final layer of paraffin overlaying them, suggesting a tendency towards monochrome).
Pd’A: How important are the categories of time and space in what you do?
MT: The reference to the categories of time and space constitutes an aspect without which my research could not embrace the dimension of narrative that I described earlier, and to which I attribute particular importance precisely because it allows me to activate exchanges (and thus connections) between different people and contexts, beyond historical or geographical divisions. Thinking of the temporal sphere that inhabits my work precisely as a narrative sequence, as already mentioned, it is a cyclical rather than linear succession, covering a period of time of the approximate duration of a century, starting in the 1920s and ending in the present day. This duration encompasses the last three generations to which the photographic testimonies used as the first visual reference in my projects belong. If they have not been handed down to me directly by people belonging to one of these generational groups, they are selected from a series of documents related to the same years. The historical moments that return most frequently are the first and second post-war periods, and generally the periods of reconstruction in Europe following conflicts that redefined its social, cultural and geopolitical balance, starting from its borders. These are chronological cycles that could be defined as palingenesis, a term with which the Stoic philosophers (in particular Heraclitus) indicated the regeneration of the universe following its ekpyrosis, or dissolution in fire, an element that also forms part of my practice on a formal level.
The aspect of cyclicity also emerges from the use of certain images that are always recurring in the realisation of the projects, albeit configured in different forms from time to time, while other archived photographs remain waiting for a further destination, and in turn bring with them reference to a series of places that are significant to me. These are once again spaces (often domestic gardens or private paths) that are familiar and linked to my childhood memories, but bordering and placed in dialogue with a more extended natural environment that is accessible to everyone. The reference to this intimate spatial dimension, but at the same time bordering on and open to a public context, is present in my way of dealing with the places where I intervene in an installation key: it translates into an interest in environments characterised by a marginal and collected position, lacking a particular visibility within the urban contexts that host them, and at the same time having a social connotation (such as parks and gardens) or former industrial spaces, rather than places where their relationship with the past remains visible. In fact, I am always attracted to the possibility of reactivating these sites through artistic operations of mimesis, aimed at blending in with their most distinctive aspects and letting them emerge spontaneously, rather than appropriating them.
Pd’A: When you do an exhibition, are you interested in the idea of staging the work?
MT: More than staging, I am interested in the concept of reactivating the work process in relation to the context in which I am going to intervene, restoring and placing the interventions that constitute it in dialogue with the spaces that welcome them in a form that is as sincere and spontaneous as possible, as when it first manifests itself within the studio. This does not necessarily correspond to a desire to make the exhibition environment appear anonymous and aseptic so that it can become the ideal container for the work, but rather to an interest in identifying the elements of contact and resonance between it and the places that host it.
Pd’A: How important is the relationship that is created between the various works that you decide to exhibit together?
MT: The dialogue between the different works exhibited within the same context is also essential for me and suggests a path that from the point of view of the chronology according to which each intervention was made is once again
is never linear, but always cyclical, and proceeds by subtraction of elements. This synthesis relates to the degree of layering and complexity at the level of both language and chromatic and sign composition, and becomes all the more pronounced the more you look towards the light.
Pd’A: When you paint, do you concentrate on a single painting or do you realise more than one simultaneously?
MT: I often work in series, making several works simultaneously, although even in these situations there are times during the process when I feel the need to focus on a single piece. This happens particularly when I work on the pictorial layering of human figures, focusing on faces. Generally, however, it is the individual project, with the time it requires and the urgencies it presents, that suggests to me how to proceed during its realisation.
Pd’A: What is your idea of beauty?
MT: When I think of the concept of beauty (taking into account, however, the complexity that can be involved in giving it a definition as it is the bearer of an extremely wide range of meanings, many of which are potentially at odds with each other), it has always reminded me of the existential scope that lies behind an image, a situation or a story. More precisely, I believe it corresponds to the capacity, inherent in that particular vision, story or context, to remain authentic and at the same time suspended between self-affirmation and openness to becoming other (and, consequently, to different interpretative possibilities). So I could say that I trace beauty back to a principle of latency, an aspect that in turn I have always perceived as deeply existentialist.
Pd’A: Do works of art exist in your opinion if there is no one looking at them?
MT: I reconnect to the previous discourse by starting from the fact that I have always thought of the work of art as a form of expression that, to be defined as such, must have at its basis an existential necessity, an urgency, even before a desire to exhibit or be exhibited. I am thinking of a short treatise written by the French landscape architect Gilles Clément, according to whom art – in some of its spontaneous manifestations found within natural contexts – can even be involuntary, and consequently totally detached in its very constitution from a consciousness linked to the possibility or otherwise of its fruition. In fact, the text intends to show us how, for those who know how to observe, art can be everywhere, and I personally believe that, however much we are culturally inclined to think that its manifestations must first concede themselves to our sight, it must often be sought out, particularly when it is given in its most authentic form (and for this reason not always clearly visible at a first glance).
Pd’A: What is your position on your work?
MT: My way of approaching the work, as well as the materials and languages that compose it, is not univocal but fragmented, and manifests itself in different forms depending on the phase it is going through and the urgencies that the research process from which it arises is facing. Certainly one of the tendencies that emerges first in this sense is that of placing oneself in an attitude of observation, which in turn brings with it the need to go beyond the surface, digging to return to the origin of certain phenomena about which I question myself. From this point of view, I sometimes seem to work like an archivist who searches among his records for traces of past moments, which have apparently lost all connection with the present but may be necessary to understand it. In other situations I have the impression of working like an animator carrying out a tracing process on digital film, and this is the reason why when I have to print recovered photographs on a semi-transparent support I use rotoscoping polyester (a technique born in the mid-1910s in the field of animated cinema precisely to “animate” the image starting from the tracing of real films). In other moments still I feel closer to a researcher who works in the social field, even if in relating to this – and similarly in the other situations just described – I only have at my disposal the artistic means with which I commonly work. And it is precisely the artistic language that I encountered first, painting – although this can take on different connotations within the work process – that helped me in filling the empty spaces between the various areas of interest, placing them in relation and reconstructing connections starting from the individual fragments.
Matteo Trentin, born in Schio (in the province of Vicenza) in 1996, is a visual artist who lives and works between Schio, Padua and Venice
In 2019 he obtained the Level I academic diploma in Painting at the G. B. Cignaroli Academy of Fine Arts in Verona.
Between 2020 and 2022 he participated in various national and international collective exhibitions and co-founded, together with Marzio Savio and Andrea Marini, the artistic collective Proiezioni Sonore.
In 2023 he obtained a Level II academic diploma in Visual Arts – Painting specialization – at the Brera Academy of Fine Arts, with a thesis on the memory archive understood as a contemporary artistic language, wrote the Ri(de)construction Manifesto and participated in the residency program for young artists at the Bevilacqua La Masa Foundation in Venice.
In 2024 he began to carry out the activity of external tutor in the Painting lessons for the two-year and three-year courses held by Nemanja Cvijanovic at the Giudecca 212 atelier in the Academy of Fine Arts in Venice which he still continues, participates in the Meeting Gardens 2024 project curated by Ife collective and becomes part of the collective atelier and artist run space Unobis in Padua, where his studio is currently based and has just taken place a presentation of his research as part of the Dlin Dlon review.






