Intervista a  Angel Garcia Moya

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Parola d’Artista: Come nasce il tuo interesse per l’arte e in particolar modo quello per l’arte contemporanea?

Angel Garcia Moya: Sono nato a Córdoba, in Spagna, per cui sono cresciuto immerso in una scena impregnata di arte e cultura soprattutto legata alla ricerca archeologica dei resti romani, allo studio del Califato Omeya che governò sulla penisola iberica islamica (al-Andalus) e su alcune parti del Maghreb dal 929 fino al 1031 facendo di questa città uno dei centri di potere statale e di cui rimangono tracce fondamentali come la grande Moschea e, infine, alla visione delle innumerevole chiese e sculture in legno barocche presenti nel centro storico. Tuttavia, il mio approccio al contemporaneo è arrivato molto più tardi, pochi mesi dopo il mio trasferimento a Roma, grazie al lavoro di assistente nella Galleria Oredaria diretta da Marina Covi Celli. Qua ho avuto la fortuna di lavorare a stretto contatto durante gli allestimenti con artisti come Gilberto Zorio, Maurizio Mochetti, Ettore Spalletti, Alfredo Pirri e tanti altri che poi mi hanno portato a studiare in modo maniacale tutta la bibliografia che di volta in volta mi veniva suggerita. Sono stati anni fondamentali nel mio percorso perché parallelamente al lavoro di assistente ho iniziato a curare le prime mostre in altri spazi e a conoscere gli artisti della mia generazione, intrecciando con loro urgenze, necessità e discussioni.

P.d’A.: Che studi hai fatto?

A.G.M.: Sono laureato in Storia dell’Arte con una specializzazione in archeologia e, in particolare, nel mondo funerario preclassico. Avevo iniziato il percorso di dottorato, sempre in archeologia, che ho abbandonato subito per trasferirmi a Salamanca e iscrivermi alla facoltà di Filosofia.

P.d’A.: Ci sono stati degli incontri importanti durante gli anni della tua formazione che hanno in qualche modo avuto un influsso sullo sviluppo del tuo lavoro?

A.G.M.: Sicuramente ci sono delle persone che hanno aiutato a tracciare degli indirizzi ben precisi sia nella mia formazione che successivamente in ambito nettamente lavorativo. Penso per esempio a Desiderio Vaquerizo che lungo gli anni di università mi ha insegnato un metodo di studio e di lavoro stratificato che continuo a utilizzare tuttora; la stessa Marina Covi da cui ho imparato a rapportarmi con gli artisti e a costruire le mostre; Gilberto Zorio in quanto sono stato catapultato in un allestimento pazzesco che durò quasi un mese come primissima esperienza lavorativa; Alfredo Pirri che mi invitò a una residenza in un posto magico come la Tenuta Dello Scompiglio e mi spinse a fare il primo punto della situazione su una ricerca sull’identità che mi ossessionava e che non riuscivo a circoscrivere; Cecilia Bertoni per il confronto quotidiano su filosofia, letteratura, cinema, teatro, performance o arte e, infine, la mia compagna Silvia Bellotti per i continui stimoli intellettuali e per spingermi ogni giorni a indagare gli argomenti e le problematiche più attuali.

P.d’A.: Come intendi il tuo lavoro?

A.G.M.: Per me è semplicemente un’urgenza, qualcosa di viscerale di cui non potrei fare a meno. Naturalmente ci sono momenti in cui uno vorrebbe lasciare tutto, cambiare radicalmente, abbandonare un sistema che troppo spesso si rivela malato e pieno di favoritismi e clientelismi, ma poi incontri un artista particolarmente suggestivo, vedi una mostra che ti sbalordisce, scambi due chiacchiere con un collega o leggi un libro su nuove teorie o approcci e tutto torna a trovare l’equilibrio.

P.d’A.: In che modo ti avvicini al lavoro di un’artista?

A.G.M.: Prima ancora di vedere come il lavoro si formalizza, mi interessa sapere da quale contesto parte, quali sono i suoi riferimenti, quali sono le sue ossessioni, come si approccia ai diversi linguaggi, cosa legge, cosa guarda, come pensa, come attua, come ha costruito il suo immaginario personale. Solo dopo voglio sapere come tutto questo viene modellato, plasmato, espresso, concretizzato.

P.d’A.: Leggendo e vedendo le mostre che hai curato ad oggi il tuo terreno d’elezione sembra essere quello dell’installazione e della performance che cosa ti attrae di questi linguaggi?

A.G.M.: Sono sempre stato attratto dal concetto di trasversalità, per questo la maggior parte delle mostre che ho curato tentavano di analizzare o almeno studiare i confini tra i vari linguaggi, provando a identificare e approfondire le convergenze e linee intersecanti nelle diverse pratiche della contemporaneità. Credo che questi aspetti siano particolarmente suggestivi nella performance dove l’ambito di possibilità si moltiplica rispetto a qualunque altro linguaggio. Un altro aspetto per me fondamentale è quello di dilatare le possibilità di interpretazione da parte del pubblico, evitando l’ermetismo di tanti lavori in cui è impensabile addentrarsi senza avere tutti i codici per decodificare l’opera e, in questo senso, l’installazione mi ha sempre colpito per la sua particolarità di condensare tutta una serie di registri senza banalizzarli e, allo stesso tempo, la sua capacità di attirare e catturare un pubblico più eterogeneo che magari si avvicinava per la prima volta al contemporaneo.

P.d’A.: Fra le varie esperienze di collaborazione con istituzioni sia pubbliche che private, che hai avuto fino ad oggi, quale è quella in cui hai trovato una dimensione che più si confà alla tua visione?

A.G.M.: Gli aspetti che accennavo prima sono diventati parte integrante delle mie inquietudini, ricerche e modalità di lavoro di cui ormai difficilmente riesco a fare a meno per cui è sicuramente la Tenuta Dello Scompiglio il luogo dove ho potuto metterle in pratica insieme alle mie colleghe in modo più lineare e sistematico, sprimentando, sbagliando e crescendo in modo parallelo allo sviluppo di questa realtà in cui ormai lavoro da dodici anni.

P.d’A.: Quali progetti hai per il prossimo futuro?

A.G.M.: Attualmente, oltre alla costruzione della regolare programmazione dell’Associazione Culturale Dello Scompiglio, sto definendo tutti i dettagli del Padiglione Spagnolo alla Prima Biennale di Malta di cui sono il curatore e che inaugura la seconda settimana di marzo.

Angel Moya Garcia (Cordova, Spagna, 1980. Vive e lavora a Firenze) è critico e curatore d’arte contemporanea. Laureato in Storia dell’Arte presso l’Università di Cordova (Spagna) è Co-Direttore per le Arti Visive della Tenuta Dello Scompiglio a Lucca, Curatore d’arte contemporanea del Progetto “Panorama” della Quadriennale di Roma e socio di ICOM Italia – International Council of Museums, dell’IKT – International Association Of Curators Of Contemporary Art e dell’IAC – Istituto di Arte Contemporanea in Spagna. Recentemente è stato Curatore del programma annuale delle Residenze artistiche BLM – Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia e in passato ha ricoperto il ruolo di Responsabile della programmazione e degli eventi culturali del Mattatoio di Roma. La dimensione fondamentale della sua ricerca si centra sul concetto di identità, sulla collettivizzazione dell’individuo e sulla decostruzione del soggetto nella filosofia contemporanea. Allo stesso tempo affronta interrogativi sulla trasversalità, attraverso l’analisi dei confini e l’identificazione e l’approfondimento di convergenze e linee intersecanti nelle diverse pratiche della contemporaneità, con una speciale attenzione verso i linguaggi installativi e performativi. 

English text

Interview to  Angel Garcia Moya

#paroladartista #intervistacuratore #curatorinterview #angelgarciamoya

Parola d’Artista: How did your interest in art, and particularly in contemporary art, come about?

Angel Garcia Moya: I was born in Córdoba, Spain, so I grew up immersed in a scene impregnated with art and culture, especially linked to the archaeological research of Roman remains, the study of the Caliphate Omeya who ruled over the Islamic Iberian Peninsula (al-Andalus) and parts of Maghreb from 929 until 1031, making this city one of the centres of state power and of which fundamental traces remain, such as the Great Mosque, and finally, the vision of the countless churches and Baroque wood carvings in the historic centre. However, my approach to contemporary art came much later, a few months after I moved to Rome, thanks to my work as an assistant in the Oredaria Gallery directed by Marina Covi Celli. Here I had the good fortune to work in close contact during exhibitions with artists such as Gilberto Zorio, Maurizio Mochetti, Ettore Spalletti, Alfredo Pirri and many others, which then led me to maniacally study all the bibliography that was suggested to me from time to time. These were fundamental years in my career because in parallel with my work as an assistant I began to curate my first exhibitions in other spaces and to get to know the artists of my generation, interweaving urgencies, needs and discussions with them.

P.d.A.: What studies have you done?

A.G.M.: I graduated in History of Art with a specialisation in archaeology and, in particular, in the pre-classical funerary world. I had started a PhD, also in archaeology, which I abandoned immediately to move to Salamanca and enrol in the Faculty of Philosophy.

P.d’A.: Were there any important encounters during your formative years that somehow had an influence on the development of your work?

A.G.M.: Certainly there are some people who have helped to trace very precise directions both in my training and later in my work. I am thinking for example of Desiderio Vaquerizo who taught me a layered method of study and work during my university years that I continue to use to this day; the same Marina Covi from whom I learnt how to relate with artists and construct exhibitions; Gilberto Zorio as I was catapulted into a crazy set-up that lasted almost a month as my very first work experience; Alfredo Pirri who invited me to a residency in a magical place like the Tenuta Dello Scompiglio and prompted me to take the first step on a quest for identity that obsessed me and that I could not circumscribe; Cecilia Bertoni for her daily discussion on philosophy, literature, cinema, theatre, performance or art, and finally my partner Silvia Bellotti for her constant intellectual stimulation and for pushing me every day to investigate the most current topics and issues.

P.d’A.: How do you understand your work?

A.G.M.: For me it is simply an urgency, something visceral that I could not do without. Of course there are times when one would like to leave everything behind, to change radically, to abandon a system that too often turns out to be sick and full of favouritism and patronage, but then you meet a particularly suggestive artist, see an exhibition that astounds you, have a chat with a colleague, or read a book on new theories or approaches, and everything comes back into balance.

P.d’A.: How do you approach an artist’s work?

A.G.M.: Before even seeing how the work is formalised, I am interested in knowing what context it starts from, what its references are, what its obsessions are, how it approaches different languages, what it reads, what it looks at, how it thinks, how it implements, how it has constructed its personal imagery. Only then do I want to know how all this is shaped, moulded, expressed, concretised.

P.d’A.: Reading and seeing the exhibitions you have curated to date, your chosen terrain seems to be installation and performance, what attracts you to these languages?

A.G.M.: I have always been attracted by the concept of transversality, which is why most of the exhibitions I have curated have attempted to analyse or at least study the boundaries between the various languages, trying to identify and explore convergences and intersecting lines in the different practices of contemporaneity. I believe that these aspects are particularly suggestive in performance where the scope of possibilities multiplies compared to any other language. Another fundamental aspect for me is to expand the possibilities of interpretation by the public, avoiding the hermeticism of so many works in which it is unthinkable to go into without having all the codes to decode the work and, in this sense, the installation has always struck me for its particularity of condensing a whole series of registers without trivialising them and, at the same time, its ability to attract and capture a more heterogeneous public that may be approaching contemporary art for the first time.

P.d’A.: Among the various collaborative experiences with both public and private institutions that you have had to date, which is the one in which you have found a dimension that best suits your vision?

A.G.M.: The aspects I mentioned earlier have become an integral part of my restlessness, research and working methods, which I can hardly do without by now, so Tenuta Dello Scompiglio is definitely the place where I have been able to put them into practice together with my colleagues in a more linear and systematic way, spurting, making mistakes and growing in parallel with the development of this reality in which I have been working for twelve years now.

P.d.A.: What plans do you have for the near future?

A.G.M.: Currently, in addition to building the regular programming of the Dello Scompiglio Cultural Association, I am defining all the details of the Spanish Pavilion at the First Malta Biennial of which I am the curator and which opens the second week of March.

Angel Moya Garcia (Cordova, Spain, 1980. Lives and works in Florence) is a contemporary art critic and curator. He holds a degree in History of Art from the University of Cordova (Spain) and is Co-Director for Visual Arts of the Tenuta Dello Scompiglio in Lucca, Curator of Contemporary Art of the “Panorama” Project of the Quadriennale in Rome and member of ICOM Italia – International Council of Museums, IKT – International Association Of Curators Of Contemporary Art and IAC – Institute of Contemporary Art in Spain. He was recently Curator of the annual programme of the BLM – Fondazione Bevilacqua La Masa Artistic Residencies in Venice and in the past he was Head of Programming and Cultural Events at the Mattatoio in Rome. The fundamental dimension of his research focuses on the concept of identity, the collectivisation of the individual and the deconstruction of the subject in contemporary philosophy. At the same time he addresses questions on transversality, through the analysis of boundaries and the identification and investigation of convergences and intersecting lines in the different practices of contemporaneity, with a special focus on installation and performance languages.