Nello studio di Rosario Calabrese

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128×166 cm sono le misure delle linee che delimitano l’area di questo studio. 

La mia coreografia qui dentro è molto limitata: due tre passi avanti tenendo le braccia pressoché strette lungo i fianchi, una rotazione completa, qualche torsione da seduto, poi torno indietro,  quindi ancora due tre passi. Sopra la testa si incontrano le due falde lignee che fanno la mansarda a un’altezza sufficiente per uno che misura 187 cm.

È pensiero comune a molti quello di visualizzare il proprio studio come una seconda casa, un posto  in cui si custodisce e si accede a un’intimità altra, quella condivisa con le idee, con il fare, con le  narrazioni e le valutazioni. È la pancia dove avvengono e si concretizzano le intuizioni, quasi unicamente possibili in questo spazio dove procede una vita che da un certo punto in avanti è nota  soltanto a noi. Ma nel mio caso non sussiste la gerarchia degli ambienti: lo studio è la casa e la  casa è lo studio

Al quarto passo, fuori dall’area sopra misurata, il mio corpo si imbatte sul bordo del tavolo in cucina. A sinistra vedo i fornelli e la tazzina ancora sporca di caffè nel lavello; davanti a me la  cornice che si affaccia in camera da letto; a destra il frigo, bianco, affiancato da una vecchia cassettiera un tempo appartenuta a Publifoto e dentro cui conservo le polveri, le carte nuove  stressate ambiziose rassegnate.

Comprendo che oltre i 128×166 cm è ancora studio, non può non esserlo, definendo così la relazione tossica con il luogo e il mio lavoro. Sussurrando, ogni angolo incita violenza critica,  codardia, sofferenza alla vista costante di un piano che so attendere il peso concentrato del mio  corpo, frustrazione per un tempo che non posso o non voglio dedicare. Ho l’affanno, si, ma anche sufficiente respiro per sussurrare anch’io qualcosa, una sorta di pace con lo spazio che avvicino e  accarezzo con la stessa gentilezza con cui lo accarezza la luce del giorno quando nasce e tutte le volte che muore.

Dopo l’ennesimo cortocircuito risolto, diventiamo uno l’estensione dell’altro, complici e al servizio della stessa idea, un’altra volta ancora.

English text

Artist studio Rosario Calabrese

#paroladartista #nellostudiodi #rosariocalabrese #artiststudio

128×166 cm are the measurements of the lines delimiting the area of this studio. 

My choreography in here is very limited: two three steps forward while keeping my arms almost tight along my sides, a complete rotation, a few twists while sitting, then back, then two more three steps. Above the head, the two wooden flaps that make up the attic meet at a sufficient height for one who measures 187 cm.

It is a common thought for many to visualise one’s studio as a second home, a place where one keeps and accesses another intimacy, the one shared with ideas, with doing, with narratives and evaluations. It is the belly where intuitions occur and materialise, almost uniquely possible in this space where a life that from a certain point onwards is known only to us proceeds. But in my case there is no hierarchy of environments: the studio is the home and the home is the studio.

On the fourth step, outside the area measured above, my body comes across the edge of the kitchen table. To the left I see the cooker and the cup of coffee still dirty in the sink; in front of me the frame that faces the bedroom; to the right the fridge, white, flanked by an old chest of drawers that once belonged to Publifoto and inside which I keep the dust, the new papers stressed ambitious resigned.

I understand that beyond 128×166 cm it is still a studio, it cannot not be, thus defining the toxic relationship with the place and my work. Whispering, each corner incites critical violence, cowardice, suffering at the constant sight of a floor I know awaits the concentrated weight of my body, frustration at a time I cannot or will not devote. I have the breathlessness, yes, but also enough breath to whisper something too, a kind of peace with the space that I approach and caress as gently as daylight caresses it when it is born and as often as it dies.

After yet another resolved short circuit, we become one extension of the other, accomplices and at the service of the same idea, one more time.