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Disegno e dipingo da quando ho memoria di me, ovvio che la cameretta accogliesse il mio primo cavalletto, le mie prime tavolozze e l’avvio del mio lavoro.
Dopo l’accademia, l’urgenza di disporre di uno spazio a mio esclusivo uso mi portò due stanze e un piccolo sottoscala, soffitti alti e tanta luce! Lo studio di allora fu vero luogo di catarsi. Vi lavoravo soprattutto di notte, tempo in cui mi pareva che alla pittura potessi dire qualunque cosa.
Con dovizia da scenografo, vi creai un’atmosfera atta a favorire il fluire dei soggetti, oltre che la sperimentazione tecnica: tutto era sempre pronto, in attesa del mio ritorno, rendendo possibile proseguire il “discorso” esattamente là dove s’era interrotto e garantendo continuità e coerenza al lavoro. Certo, l’ingresso era interdetto ai più. La maggior parte delle visite le sentivo come una violazione: quello spazio ero io nuda. Furono anni produttivi e cruciali per il mio percorso.
Quando fui costretta a lasciarlo fu una sorta di lutto. Per diversi motivi mi adattai ad un angolo di casa ma non funzionò a lungo. La buona sorte volle che trovassi due stanze incredibilmente simili al vecchio studio dove apparecchiai nuovamente il mio teatro, disposto ancora ad accogliere la pratica quotidiana della pittura.
Satollo di tele, tavole, carte, barattoli, contenitori, cartelle, libri, raccolte di reliquie, objet trouvé, quaderni di disegni, collezioni di collezioni (e una considerevole quantità di puro ciarpame), lo studio contiene quasi tutto ciò che ho prodotto ed è gravido di tutto quello che mi resta da fare. Lavoro su più pezzi contemporaneamente, anche con differenti tecniche: là una tela sul cavalletto con l’ennesima velatura che deve asciugare, sul tavolo la matrice da incidere, su un altro supporto un progetto appena abbozzato. In tale congerie, ogni oggetto ha una voce utile, necessaria, fosse anche quella di uno straccio sporco.
Quando mi guardo attorno, come un geologo legge una stratigrafia, osservo la somma di quasi cinquant’anni di lavoro attorno alla forma, al significante. Mi vedo, vedo dove sono stata, vedo il mio andare.
Quell’ammasso, quello strabordare, quell’ipotetico disastro, mi accolgono e mi concedono di fare con la diligenza che desidero.
Il sottofondo, tra odore di vernici e incensi, se lo contendono il silenzio, Chopin e Bach.
Ancora oggi non è facile ammettere ospiti.











