Punti di vista sul sacro Caterina Sbrana

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Gabriele Landi: Secondo te il sacro ha ancora una sua importanza nell’arte di oggi e nel mondo in cui viviamo?

Caterina Sbrana:

Breve indice sacro (in fieri)

Un corpo morto, un corpo vivo, un corpo nel pieno della sua forza, un corpo sofferente, un paesaggio con un uomo e un cane, un paesaggio visto dall’alto, attraversato dalla luce, un paesaggio devastato arso, secco, l’incontro con un animale, un animale morto, un animale veloce che attraversa gli alberi. Un luogo dove passava un fiume, dove c’era un lago.

L’incontro con uno sconosciuto.

Le rocce e le pietre tutte. Le piante che viaggiano e attraversano i confini come le persone,

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queste cose, e l’esperienza di queste cose, sono sacre.

Il sacro è una soglia che abita l’uomo.

E’ una possibilità, una dimensione pre-religiosa, pre-storica, presente e necessaria.

In una società  che tende ad un pensiero dicotomico, super semplificato, capace di disinnescare ogni tentativo di sovvertire, capace di rimuovere la morte e tutto ciò che non possiamo controllare, il sacro rompe la regola, è l’eccezione, restituisce il rimosso e la complessità ad un mondo sempre più normato.

Penso ad Antigone che ci parla da un mondo altro, rifiuta le leggi del potere per obbedire ad altre leggi sacre profondamente umane, la sua è una disobbedienza sacra (ὅσια πανουργήσασ).

Il sacro è  un incontro che può essere spaventoso, doloroso e estremamente vitale, trasformativo, come nell’arte in cui lo avverto di più quando non è solo cercato e costruito ma quando emerge e si impone inaspettato.

Un incontro sempre mediato dalle cose, perché il sacro è legato alla realtà, si fa oggetto e  ci regala un duplice sguardo sul confine tra le cose e oltre le cose.

La radice indoeuropea sak- raccoglie, tra le sue sfumature, anche quella di  “essere reale, riconoscere realtà a qualcosa”.

Sono fanatica di liste ed elenchi, li colleziono, ed è la collezione più semplice al mondo perché per lo più me li scrivo da sola. In questi giorni ho scoperto un bel testo di Beppe Sebaste, un elenco letterario di panchine, luogo/oggetto dal quale ci si sottrae al mondo, luogo di separazione, teatro di  Maestro e Margherita.

Ricordo anch’io una panchina, ad Eleusi fuori dagli scavi archeologici  dove io e il mio compagno Gabriele ci sdraiammo a riposare e  dove mi addormentai nel caldo e nella polvere, pensando al mare  e alle terrecotte votive, mi svegliò il tocco di un amico che in sogno mi scuoteva una spalla. Un amico che se ne era andato alcuni mesi prima.

Più a sud a Capo Tenaro nel Mani, incontrammo i resti di un tempio dedicato a Poseidone, un Poseidone terribile e spietato a cui ancora oggi si lasciano offerte di cibo e brocche d’acqua.

Leggo che uno dei primi santuari dell’uomo è un cumulo di 4.000 elementi tra pietre, ossa e denti ritrovato vicino ad una fonte a El Guettar e penso che, più tardi, nel mondo antico, sempre sacre erano le fonti e gli alberi abitati dalle ninfe, creature semidivine quindi soggette alla morte. Attraverso la rappresentazione sacra del reale si riconoscevano i legami, le segnature, l’estrema importanza e la fragilità dell’ecosistema  penso a quanto sarebbe  importante stabilire di nuovo un rapporto simbolico e sacro un dialogo muto con le cose, con il non umano.