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Gabriele Landi: Secondo te il tema del sacro ha ancora una sua importanza nell’ arte di oggi e nel mondo in cui viviamo?
Giovanni Gaggia: Era il 15 dicembre quando mi arrivò la tua email, da allora sono passati 59 giorni. Oggi decido di posare i polpastrelli sulla tastiera e risponderti. La domanda mi genera imbarazzo, in questo momento della mia vita mi sarebbe molto più facile parlarti di sesso: chiaro, non aggiungerei nulla di interessante per nessuno, ma questo sarebbe il gioco e il tutto rimarrebbe nella sfera del gossip puro. Il tema del sacro mi destabilizza, entra in campo il pudore è la Ricerca nel mio Tempo, nel mio umano esistere di uomo e di artista.
Per me è fondamentale il rapporto con la spititualità. Ho una parte materiale, quotidiana e concreta, ed un’altra che guarda altrove, che mi spinge nel profondo. Questo è il motivo per cui da anni utilizzo il filo dorato per realzzare le mie opere. La difficoltà sta nel trovare un equlibrio.
Medito da mesi sulla realizzazione di una performance di danza contemporanea proprio su questo tema, vorrei che fosse Paolo Rosini l’unico corpo presente. È il danzatore che ha lavorato con me per il progetto “IL TEMPO SE NE VA” al MUSMA Museo della Scultura Contemporanea di Matera.
Mi sono permesso di chiedergli che cosa è per lui la spiriualità…
Paolo Rosini: È una corsa all’indietro in un treno dell’alta velocità, dove lo sguardo oltre il finestrino abbandona gli orizzonti stratificati del tempo, senza l’idea di trattenerli o raggiungerli ma piuttosto di lasciarli andare, di lasciarli scorrere ed allontanare. È frantumarsi nel buio di una galleria e accecarsi dall’idea del sole oltre l’orizzonte nell’esatto momento in cui ne sei già fuori, sospeso nella patina che lega il giorno alla notte. È sentire il dolore che si trasforma in gioia. Piangere e non riuscire più a distinguere la differenza tra le due. È cadere nel vuoto e sprofondare sopra una gigantesca piattaforma racchiusa in un solido respiro. È un luogo, uno spazio che sembra aprirsi dietro le mie spalle. A volte ho l’impressione che fermandomi possa riuscire a sentirne il tocco e quasi ad afferrarne il senso ma poi sfugge. La cerco per poi scappare, un po’ come rincorrersi e nell’accoglierne l’essenza. Sembra quasi di stringere un patto con il nulla; fino a perdersi.
È così vicina all’eternità che un susseguirsi di istanti rischiano di frantumarsi sotto il peso della sua inconsistenza. È fiducia più che fede in qualcosa. È più vicino al sapore di un’intuizione che fatico ad accettare che quello di tante altre chiare illusioni che non riesco più ad afferrare. Forse è tutto quello di cui ho bisogno per trovare un senso alla vita e nel non trovarlo ne avverto l’esistenza.
È pensare alla morte e riuscire a lasciarsi sfiorare la pelle da una sensazione di gioia mentre lo sguardo e la mente insieme si accaniscono nel tentare di tessere un’immagine che non riescono a definire.
È accettare un grido che vorrei non sentire… È fermarmi… È non dire altro.



