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Lo studio presso il quale lavoro non è altro che un rudere degli anni ‘60, situato a pochi metri dalla mia abitazione, nel centro storico di Comacchio; è disabitato da decenni, è privo di corrente elettrica, non esiste più il solaio ma c’è un grande e verdeggiante giardino.
Ritengo fondamentale avere uno spazio nel quale io possa sfogarmi e liberarmi dalle idee che mi passano per la mente.
Quindi, quando mi ci reco, di solito ho già qualche idea, qualche progetto in mente che non sempre si rivela “facile” da mettere in pratica, da eseguire. Lo studio, inteso come spazio dedicato alla creatività, mette in atto la “magia”, convoglia tutte le mie forze e la mia attenzione verso l’opera; ogni elemento presente intorno a me all’interno dello studio concorre a completare l’ispirazione necessaria. Lo studio diventa una dimensione a sé stante, dove “strappo” e ricompongo pezzi di realtà secondo la mia interpretazione. È allo stesso tempo contenitore e contenuto; ospita me e tutta la mia visione artistica e contemporaneamente ne è parte integrante.
Per questo sono convinto che lo studio è parte stessa dell’opera e della sua creazione; l’ubicazione, l’orientamento, perfino il tipo d’aria che vi si respira sono elementi che influiscono sulla composizione dei miei lavori. Fino ad alcuni anni fa lavoravo in uno studio molto più piccolo, questo mi portava ad agire in modo differente e quindi a produrre lavori molto differenti; questo nuovo studio invece ha determinato immediatamente un cambiamento nel mio linguaggio. Sarà forse per via della scarsità o quasi totale assenza di luce, ora dipingere “quasi al buio” mi permette di far prevalere il tatto su gli altri sensi (schiaccio, sfioro, strappo, tocco) e mettere su tela non solo ciò che vedo, ma ancora meglio ciò che immagino, qualcosa che si rivela appieno solo il giorno dopo, in piena luce. Sono sicuro che alcuni lavori, se non fossero stati eseguiti lì, non sarebbero proprio nati, esistiti.
Quando invece l’insoddisfazione prende il sopravvento e l’ispirazione si fa latitante, il rapporto con lo studio di conseguenza si fa negativo: non lo frequento per settimane, lo trascuro e se mi sforzassi di trovare per forza l’ispirazione andandoci, finirei per distruggere tutti i lavori realizzati in precedenza. Ecco perché dico che il rapporto è simbiotico: agisce così come fa la mia mente, non al suo posto.
È la dicotomia del fare arte: una cosa meravigliosa, profonda e intima ma allo stesso tempo una condanna.










