Intervista a Diletta Boni

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Gabriele Landi: Ciao Diletta, spesso per noi artisti l’infanzia si rivela uno dei momenti più fertili in cui si innescano pensieri e modalità che in seguito si riveleranno momenti fondanti del lavoro. È stato così anche per te? Racconta.

Diletta Boni: Ogni essere umano è determinato dall’esperienza dell’infanzia, credo che molti passino almeno metà della loro vita tentando di superare o semplicemente subendo il giogo di quella fase. Per me è stata un’era dirimente!

Sono persuasa che due condizioni principali abbiano informato il mio lavoro nella pittura, definendo l’una maggiormente gli aspetti stilistici, tecnici e procedurali, l’altra precipuamente le tematiche o i soggetti.

Dando per scontato mi sia concesso di non soffermarmi sui dettagli dei turbamenti che hanno generato i miei contenuti, posso ricostruire almeno sommariamente l’origine della mia passione e il suo sembiante.

La mia precoce e manifesta predisposizione al disegno, e alle altre forme di manualità, si è avvantaggiata di alcuni elementi determinanti: una certa facilità ad apprendere, una moltitudine di libri a mia disposizione, due genitori capaci di maneggiare attrezzi e strumenti per realizzare manufatti e progetti (ognuno nel suo ambito) e un’insaziabile sete di sapere. Mi interessavano soprattutto gli esseri viventi, i fenomeni naturali, l’astronomia, le scienze, la storia, l’arte, la musica: mio padre era appassionato di tutto! Mi raccontano che a quattro anni leggevo abbastanza fluentemente e scrivevo, certo grazie a mia madre. Ho imparato ad amare i libri, capaci di rispondere alle mie curiosità e ai miei infiniti perché: erano la sicurezza in forma solida, per di più sempre disponibile. Tutto in quelle pagine quadrava e consentiva di vestire di confortante logica la realtà. Sapere cose mi rassicurava e ne avevo bisogno. Infatti, anche se non mi mancavano le lodi di molti adulti di riferimento, mi sentivo diversa dai miei coetanei e assai inadeguata, spesso inferiore. La parola scritta, il disegno, e presto la pittura, mi portavano in luoghi in cui non avevo l’incombenza del confronto col mondo dal quale mi sentivo rifiutata. Insomma, anche se sono persuasa di aver fatto anche altro (certamente anche essere felice), almeno nei primi dieci anni di vita mi sembra di ricordare solo di aver letto, pensato, guardato, immaginato, disegnato. So anche che, pur omettendo le mestizie di respiro cosmico ed altre deliziose afflizioni nelle quali ero solita indugiare in perfetta solitudine, questo tableau rischia di somigliare ad un trito paradigma leopardiano, ma tant’è!

Un altro germe determinante nel mio sviluppo è stato disporre di una pregevole enciclopedia dei musei che mia madre acquistò per sé in occasione delle nozze: passavo ore a sfogliarne i tomi! Questo mi ha precocemente erudita nella storia dell’arte, nondimeno mi ha condizionata stilisticamente in senso “accademico” nelle prime fasi della mia pratica artistica, indirizzandomi inevitabilmente verso un sogno che si potrebbe definire neoclassico. Liberarsene è stato molto faticoso, sempre che io ci sia riuscita.

In ogni caso, l’esito di tutto questo è che per me la pratica artistica è una questione che attiene al bisogno di controllo e alla cura.

G.L.: Quale è stato il tuo iter di studi e quali altri incontri importanti hai fatto negli anni della tua formazione?

D.B.: Poiché non ho mai avuto particolari dubbi su cosa avrei fatto per guadagnarmi da vivere e grazie a mia madre che ha sempre appoggiato le mie scelte, mi sono diplomata all’Istituto d’Arte nella sezione Lavorazione del legno e poi in pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ho sempre studiato e lavorato con piacere e avuto la fortuna di incontrare molti docenti competenti e appassionati, alcuni sono stati dei maestri. A mio padre (eterno inventore) e alla frequentazione dell’Istituto d’Arte devo l’aver acquisito un metodo di lavoro, la capacità di progettazione, il saper cercare soluzioni creative ai problemi e l’aver potuto riorganizzare, consolidare e ampliare la mia conoscenza della storia dell’arte. Quelli in Accademia sono stati però gli anni cruciali: ho potuto lavorare nella stessa stanza con studenti provenienti da tutto il mondo, respirare l’aria di diversi studi di artisti giovani o maturi, rafforzare l’idea della possibilità di comunicare con tecniche diverse e cominciare a discutere davvero delle questioni costitutive di quel mondo. Per me poi, proveniente da una piccola città, Roma è stata una continua visione abbagliante, in tutti i suoi aspetti, anche i più trasandati. A “Ripetta” ho beneficiato di stimoli potenti! Il maestro Sandro Trotti, pur lasciando sempre intatta la mia libertà di espressione, e con una schiettezza tutta marchigiana, mi ha instradata alla ricerca del colore e all’organizzazione della composizione, concedendomi di superare quell’insensato neoclassicismo di cui ti parlavo. I professori Marzia Corteggiani e Marco Bussagli mi hanno aperto all’universo simbolico e semantico dell’immagine, educandomi alla scrupolosità e al rigore nella presentazione del lavoro al pubblico. Quello col compianto maestro Gian Paolo Berto, divenuto poi caro amico e recentemente scomparso, è stato però l’incontro più fecondo. A lui devo l’aver acquisito il vero senso del mio percorso, che è soprattutto studio, ricerca, disciplina, libertà, generosità. Quel che riesco a fare ora lo devo principalmente a lui e al suo sempre coerente esempio. Studiare, cercarsi i propri maestri (e “ucciderli”), trovare il proprio segno, non indugiare nell’invidia, lavorare tutti i giorni, senza scuse: queste le cose che mi ha insegnato e che cerco di praticare con diligenza, nei limiti concessi dalle mie debolezze.

G.L.: Uscita dall’Accademia sei rimasta a Roma? 

D.B.: Sono stata sempre una pendolare, anche se quotidianamente e con orari sfibranti. Ho cercato più che potevo di evitare inutili esborsi alla mia famiglia. Dopo l’Accademia, per un anno circa, ho continuato a fare la spola: era difficile lasciare quella feconda consuetudine. Nel frattempo ho preso in affitto due stanze, il mio primo studio a Terni.

G.L.: Che tipo di lavori facevi?

D.B.: Era il 1996, avere uno studio dove lavorare lontano dallo sguardo degli altri mi ha concesso di immergermi in atmosfere che hanno favorito il contatto con esiziali situazioni interiori. Studiavo con zelo le origini del mito della Grande Madre e leggevo di psicoanalisi. Dipingevo soprattutto di notte, cercando isolamento e favorendo un determinato stato di inquietudine, fatto che ha generato opere drammatiche e spiccatamente espressioniste, della cui grevità mi sorprendevo io stessa. In seguito tinte e soggetti si sono fatti più delicati e simbolici, quasi fiabeschi. Dopo questa sorta di percorso catartico, evidentemente necessario, gradualmente sono tornata a lavorare sul colore e sulla composizione.

G.L.: In questa fase iniziale, da quello che racconti, mi sembra ci sia la volontà conscia o inconscia di individuare un mito fondativo, un punto di partenza. In questo senso va letto l’interesse per la figura simbolica della grande madre?

D.B.: Sì, se per mito fondativo intendi un insieme di storie e figure capaci di allegorizzare la mia storia e la mia identità.

Più semplicemente si potrebbe dire che per anni nel mio lavoro ho proposto soggetti che erano veri e propri alter ego. Le ragioni erano di carattere squisitamente personale: la necessità di autoritrarsi, di dare voce al non detto, di liberarsi di fardelli. Prima di chiamare in causa il mito della Grande Madre mi sono servita della figura della Madonna, piegandola ad una iconografia a dir poco insolita. Poi sono stata Luna, balena, fata, iniziato…

Certo, nella scelta di questi “attori”, oltre alle influenze inconsce, deve aver pesato la mia necessità di bilanciare (quasi giustificare) l’aspetto insolito di quei dipinti con contenuti aulici, e sovente oltremodo ampollosi, desunti dalle discipline che mi piaceva studiare.

G.L.: Dopo questo primo momento come sono andate avanti le cose?

D.B.: Progressivamente l’urgenza di comunicare la mia storia personale si è attenuata e via via le questioni tecniche e formali si sono fatte prioritarie. Non posso dire che non mi interessi più il “soggetto” ma che esso, pur originandosi nel mio personale sistema simbolico, ora non ha più il ruolo di significante (al più evocativo) bensì quello di farsi perno o motore di un‘aggregazione di oggetti semiotici. Intendo dire che sempre di meno mi preme raccontare a chi osserva e sempre più ambisco a fornire spazi di contemplazione privata. Ovviamente, sono conscia che, come allora, anche oggi sono le mie scelte a definire la geografia e ordire l’atmosfera in cui si muoverà la sensibilità di chi guarda, lasciando tuttavia più ampi margini di autonomia.

In questo senso si spiega il volgere all’astratto del mio linguaggio.

Per lo stesso motivo, la questione squisitamente tecnica si fa dominante: se non è la “figura” a comunicare, il compito spetta al segno, alla superficie, alla tonalità, allo spazio. Queste, e le altre cose escluse da un così sintetico elenco, devono quindi necessariamente possedere peculiarità e strutture tutt’altro che casuali, anzi, esattamente connotative, così da potersi esprimere in forma coerente. Ben inteso: non dico di essere giunta a tale scopo ma di averne fatto un preciso intento.

G.L.: In che modo tutto questo lento processo si ripercuote sulla tua pittura, intesa come atto del dipingere?

D.B.: Non credo di poterlo dire con la lucidità che vorrei, poiché si tratta di un processo in cui sono continuamente immersa.

L’immagine che mi è sempre parsa calzante è quella di una distillazione. Sono persuasa che la sostanza di partenza sia stato l’imperioso grido da emettere, ora credo che il lambiccato sia pura esperienza che si autoalimenta, un fare che non può prescindere da se stesso. Si potrebbe dire che il mezzo sia divenuto il fine.

Diletta Boni è nata a Terni nel 1972, consegue il diploma presso l’Istituto d’Arte “O. Metelli” (TR), e nel 1995 si diploma in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma con il maestro Sandro Trotti e sotto l’ascendente del maestro Gian Paolo Berto.

Nel tempo, parallelamente a quella nel disegno e nella pittura, acquisisce esperienze nel campo del design tessile, della grafica pubblicitaria e della ceramica artistica e dell’insegnamento.

Pur prediligendo la pittura, si avvale a volte di altri media: stampa, illustrazione, scultura, installazioni site-specific, allestimento degli spazi, cortometraggi.

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