Intervista a Iacopo Pinelli

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Gabriele Landi: Ciao Iacopo, parole come energia, forza, intensità, tensione hanno una qualche importanza nel tuo lavoro?

Iacopo Pinelli: Ciao Gabriele, grazie per l’invito. La tensione, sopratutto, è stata la tematica principale del mio percorso. Tensione intesa sia oggettivamente che psicologicamente. Sotto quest’ultimo profilo quale elemento caratterizzante emozioni e stati d’animo personali. È stato il punto di partenza, una bussola per orientarmi. Certamente non ho trovato la strada, solo percorsi sterrati. Durante il viaggio ho però compreso che ciò che mi interessava maggiormente era la condizione umana e le problematiche correlate. Ho iniziato il mio percorso manipolando la materia per rappresentare la mia condizione umana. Una sorta di autoritratto che con il passare del tempo diventa sempre più una foto di gruppo. i concetti di forza, energia e intensità appartengono al mondo della fisica; mi affascinano e sono presenti nella mia evoluzione artistica. Utilizzo questi concetti nei miei lavori come cortocirciti visivi e concettuali per proporre, attraverso metafore, l’umana quotidianità.

Gabriele Landi: Anche il movimento fisico che usi nelle tue installazioni rientra nella stessa dinamica?

Iacopo Pinelli: Attraverso l’utilizzo del movimento e quindi dei congegni messi a disposizione dalla tecnologia, sono riuscito ad apportare nelle opere quella dinamica che ne infatizza la concettualità accrescendone il significato e la percezione. Il dinamismo è entrato a far parte della evoluzione del mio percorso artistico che è iniziato con la pittura ed è proseguito con la scultura, per approdare nell’installazione. Di recente ho inserire nei “corpi defunzionali”, serie di lavori iniziata nel 2018, il movimento generato con motori elettrici, in modo da enfatizzare l’inadeguatezza dell’oggetto a svolgere la propria funzione e mettere in evidenza la difficoltà nel gestire il nostro tempo ormai colonizzato.

Gabriele Landi: Puoi spiegare meglio questa idea del tempo colonizzato da chi e come?

Iacopo Pinelli: Il concetto di tempo colonizzato viene ben affrontato e approfondito da Debourd nella “la società dello spettacolo”, da Byung-Chul Han “psicopolitica” e da Gancitano e Colamedici nella “società della performance”. Semplificando, gli autori di cui ho riferito e anche altri che non ho citato hanno rilevato come l’individuo sia mutato in lavoratore e da lavoratore a consumatore in un mondo artificiale comandato da mezzi di comunicazione in grado di indirizzare ogni scelta individuale. Il passo successivo della trasformazione è stato da soggetti a progetti, ovvero ad ogni persona che ha un accesso al web corrisponde un profilo su un social network che diventa un brand, un marchio, un progetto che va promosso per la sopravvivenza del nostro avatar (il profilo social). In questo modo si è creato un ribaltamento di ruoli in cui non è più l’avatar a somigliare alla persona bensì è la persona che deve essere all’altezza dell’avatar. Correlata alle tematiche già citate, è, a titolo esemplificativo, la FOMO (fear of missing out) che si sostanzia nell’ansia sociale e paura di essere tagliati fuori, esclusi da contesti sociali gratificanti. Ormai il tempo dell’individuo è divenuto un tempo di opzioni su cosa comprare o cosa postare. Il tempo oggi è così frenetico che ci siamo trasformati “in tempo” così da non avern più. Insomma, il nostro tempo è colonizzato e non siamo noi a decidere come utilizzarlo. In tale contesto il mio impegno artistico in questo momento è indirizzato verso il restauro del tempo.

Gabriele Landi: Come intendi procedere in questo restauro del tempo?

Iacopo Pinelli: Abito in un contesto rurale lontano dalla frenesia dei centri urbani. Il trascorrere del tempo è più lento nelle zone poco abitate, come la mia, rispetto alle città; ciò inevitabilmente comporta maggiori momenti di riflessione e questo aiuta a soffermarsi più intensamente sui gesti e sulle quotidiane abitudini e icombenze. Secondo me, il ritmo lento favorisce la riscoperta e rivalutazione di antichi gesti e in generale delle azioni umane che la frenesia inevitabilmente ci fa dimenticare. Il termine restauro del tempo è emerso, quasi casualmente, durante una conversazione a tre con Anita Calà ed Elena Giulia Rossi svoltasi in occasione della preparazione della mostra collettiva “triggerbeats” presso officine Brandimarte di Ascoli Piceno attualmente in corso. L’approccio tecnico e artistico all’argomento, per quel che mi riguarda, è iniziato prima del citato evento. Già verso la fine del 2019 avevo intrapreso una ricerca che io definistco “pitture di sole”, la cui tecnica consiste nell’esporre agli agenti atmosferici per un determinato periodo di tempo pannelli fotosensibili. Il lento trascorrere del tempo si incide sulle superfici lasciando traccia di sè. La tecnica descritta può essere associata alla “Rayografia” di Man Ray. La differenza essenziale consiste nel fatto che la tecnica da me utilizzata a differenza di quella dadaista, necessita del lento trascorrere del tempo e di una protezione per la conservazione dell’opera così ottenuta. Successivamente ho sviluppato ulteriori tecniche sempre attinenti all’analisi del restauro del tempo e della conservazione della memoria. Ogni azione umana incide necessariamente sull’esistente modificandolo e facendone perdere la memoria. Quando noi semplicemente pratichiamo un foro nel muro oppure tagliamo un legno modifichiamo lo stato dell’oggetto sottraendo materia. Metaforicamente la polvere e la segatura rappresentano la memoria che si perde. Il mio intervento consiste nel recuperare la materia perduta, banalmente la polvere e la segatura, attraverso il restauro e ricostruzione della parte sottratta.

Gabriele Landi: Che relazione esiste nel tuo lavoro con lo spazio?

Iacopo Pinelli: Fin da bambino ho avuto una propensione per la pittura, credevo fosse il mezzo per eccellenza per esprimermi. Con il passare del tempo e con l’esperienza dell’accademia ho compreso che la bidimensionalità non mi bastava più. Dovevo uscire dalla tela. Ho iniziato ad utilizzare la tela non più come supporto ma come soggetto che si evolve verso lo spazio attraverso l’utilizzo di gesso, colle, pigmenti e cavi d’acciaio. Il rapporto tra i miei lavori e lo spazio è di scambi. Un dare e avere sempre diverso, sempre da scoprire. A volte la sfida è riuscire a dialogare con lo spazio senza danneggiarlo, senza alterarne l’essenza, l’anima. Altre volte è necessario trasformarlo completamente. Non è uno schema con delle regole è piuttosto la continua ricerca di un equilibrio di sottrazioni e addizioni.

Gabriele Landi: Una forma di dialogo quindi?

Iacopo Pinelli: Si, esatto. Nello specifico, se guardiamo gli ultimi lavori da me prodotti, il dialogo è ben evidente. Il materiale asportato praticando dei fori nel muro diventa parte mancante dello spazio. Con il mio intervento ricostruisco la parte asportata, così lo spazio non è solo supporto ma parte integrante dell’opera. Oppure la serie di opere “messa in sicurezza” in cui strutture metalliche estrapolate dal contesto urbano con funzione di supporto e contenimento di edifici pericolanti, le tipiche impalcature utilizzate nelle zone terremotate, perdono significato se decontestualizzate ed assumono un significato altro. Anche in “corpi defunzionali” in cui all’apparenza non sembrano esserci relazioni importanti con l’ambiente, la gravità agisce e le forze sono sempre attive.

Gabriele Landi: Che importanza ha e come avviene la raccolta del materiale che impieghi?

Iacopo Pinelli: Durante l’infanzia, mi sono spostato frequentemente dal Nord al Centro italia con la famiglia, da un ambiente cittadino ad uno rurale dove il contesto casa era sempre in divenire. Mi piace pensare di essere cresciuto in un vero e proprio cantiere. La passione che mio padre ha sempre coltivato per la costruzione e la ristrutturazione è stato sicuramente un grande imput creativo. I materiali che mi circondavano erano materiali edili, legno, attrezzi per la campagna, libri e colori. Sia nei primi lavori che negli ultimi si vedono chiaramente i diversi stimoli ricevuti nell’infazia, dal cemento alle armature in ferro, i vecchi tessuti di cui era fatto il corredo e i cimeli che inondavano e inondano le soffitte, segatura e sedimenti vari. Le plastiche, gomme e resine sono comparse in un secondo momento a causa della voglia di sperimentare materiali nuovi e dalla naturale evoluzione processuale. Ho usato la gomma e la schiuma poliuretanica per svariati lavori. La loro plasticità, versatilità e soprattutto la loro processualità, passando dal liquido al solido (materiali bicomponenti) li rendono ideali per impieghi infiniti, riuscendo a calcare ogni singolo dettaglio adattandosi ad ogni spazio. Ultimamente sto adoperando il ferro, la cui componente solida e fredda ha un fascino tutto suo, dove il tempo rimane impresso con sfumatore che variano dal nero al rosso ruggine. Anche con il ferro, come con gli altri materiali cerco di acquisire le tecniche di utilizzo senza affidarmi a terzi. Penso che l’artigianalità nel lavoro sia una sfumatura importante. A mio parere si imparano più cose durante il processo che nell’ideazione o conclusione di un’opera. Attualmente insegno al liceo artistico di Macerata come docente di metalli e oreficeria. Ritengo che sia una esperienza molto importante e credo che avrà delle ripercussioni nel lavoro futuro e nei materiali che adopererò nelle nuove opere. Comunque, i materiali impiegati fanno parte del mio cammino di vita, a volte calcolati a volte incontrati “casualmente”. Nella domanda che mi hai posto parli di raccolta, la raccolta fa parte degli ultimi progetti nei quali il residuo e la scoria si fanno memoria, tramite un processo di catalogazione e recupero. Il materiale viene raccolto durante lo svolgimento di lavori del quotidiano. Ad esempio, la segatura che adopero per la ricostruzione delle parti mancanti del legno dovuto al taglio o alla potatura, i fori a muro ecc… Il materiale ha fondamentale importanza per me. Ritengo che la materia già contenga in sé il carattere dell’opera. Mi piace pensare che l’opera sia la trasposizione della materia.

Iacopo Pinelli è nato a Gavardo (BS) nel 1993, attualmente risiede a Potenza Picena (MC). Dopo le scuole superiori, sceglie di proseguire i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata dove consegue la laurea biennale in arti visive – Decorazione (2018). La sua cifra stilistica combina installazione e scultura, attraverso differenti media, indaga problematiche sociali, politiche e relazionali del quotidiano ponendo l’attenzione sulla condizione umana. Traendo spunto dall’analisi fenomenologica del quotidiano, crea nuovi possibili mondi nei quali la coscienza critica collettiva possa risvegliarsi dal torpore. Tra le esposizioni personali e collettive più recenti si segnalano:

“triggerbeats”, Ascoli Piceno, Officine Brandimarte (2022); “Sui cor-pi galleggianti”, Napoli,

Shazar Gallery (2021); “Non c’è niente da vedere”, Como, Galleria Ramo (2021); “Particolare di paesaggio”, Roma, contemporary cluster (2020); “Dialoghi #4”, Pescara, Yag garage (2020); “Project room #14”, Torino, galleria Davide Paludetto arte contemporanea (2019); “Los tres estados”, Madrid, spazio d’arte OTR (2019); “Sottobosco”, Romania, Museo d’arte di Cluj-Napoca (2018); “Premio Nazionale delle Arti”, Palermo, oratorio dei bianchi (2018); “Nasce per violenza, muore per libertà”, Roma, Galleria aocF58 Bruno Lisi (2018).

Attualmente è docente di design dei metalli presso il liceo artistico di Macerata.