Intervista a Mirco Baricchi

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Gabriele Landi: Ciao Mirco, spesso ci si sente attratti dalle arti fin dalla mitica età dell’infanzia è accaduto anche a te, racconta?

Mirco Baricchi: “Signora puo’ scendere Mirco con noi in cortile per giocare?”

“Eh ora chiedo ma credo che sia occupato”

Questa breve botta e risposta ha l’eco della mia infanzia.

Che cosa occupava Mirco bambino e’ presto detto, tentare dalla mattina alla sera, con pause forzate scolastiche( non sempre ) di riprodurre personaggi legati al mondo Marvel, fumetti lasciati in giro per casa da un mio zio che ai tempi viveva con noi.

Hulk era il piu’ riprodotto, riempire lo spazio con quel verde…cosa poteva esserci di meglio?

Quindi, Mirco era praticamente sempre curvo su un foglio, su un tavolo ma spesso in terra.

Non avevo nessuna ambizione artistica, non sapevo cosa fosse davvero l’arte, ma una cosa e’ certa: oggi pomeriggio appena dopo pranzo non scenderò’ in cortile, mi aspetta un certo verde…

G.L.: Quando e come hai cominciato a renderti conto che questa ossessione per il disegno sotto intendeva altro?

M.B.: Sostanzialmente mi son reso conto che mi attraevano le immagini.

Anche quelle in movimento, un amore per il cinema per esempio, grazie ad un nonno materno meraviglioso che mi portava appena poteva al cinema con lui.

Ma mi resi conto che le illustrazioni di certi libri, o personaggi dei fumetti, esercitavano su di me una vera e propria fascinazione.

Quell’immobilita’ rendeva tutto scultoreo, solenne, c’era tensione, e dinamismo nell’evocare un movimento solo citato.

Insomma ricreare queste caratteristiche con immagini, mi bastava una matita, e pomeriggi chiuso in camera.

Ma quello che successe dopo, traccio’ una linea che dava una misura di quanto fosse non solo un passatempo il disegno ma un vero e proprio rimedio ad una mia natura diciamo malinconica, incline alla solitudine.

Se disegnavo mi sentivo parte del tutto, energico, soddisfatto, al contrario se non lo facevo provavo disagio.

Tutto questa consapevolezza intorno ai 12 anni.

Ad oggi nulla e’ cambiato

G.L.: Hai fatto degli studi specifici?

Quali incontri importanti hai avuto durante la tua formazione?

M.B.: Se, se, questa tua domanda tende a svelare la risposta che sta dietro la sotto domanda:” Perche’ pensi d’essere un artista oggi? Come hai fatto a diventare un Artista?” Ecco premetto che il sottoscritto non crede ad una scuola che insegni a diventare artista.

E non e’ un opinione, son proprio convinto che sia impossibile formare un individuo x per intraprendere poi un percorso nella produzione d’Arte.

Quindi

Rispondo finalmente alla domanda tua.

Ecco come sono messo io rispetto al far gravitare il mio quotidiano intorno all’asse pittura.” come un maratoneta, un ultratrainer che dopo 100 km nel deserto senza acqua si trova di fronte ad un bicchiere che ne e’ pieno.Non c’e’ alternativa, non ci sono sofismi, voli pindarici del pensiero, vette alte di concetto, solo adempiere ad una richiesta fisiologica di necessita’”.

Prima di qualsiasi scuola Mirko Baricchi filtrava la realta’, la viveva, nel contempo la necessita’, eccola, di trasporla.

Non si insegnano queste pulsioni.

Non si insegna ad avere bisogno d’acqua.

Poi.

” Signori genitori vostro figlio a nostro avviso di suoi maestri/professori dovrebbe intraprendere un percorso scolastico legato alle arti visive, per questo e per quell’altro motivo( ne abbiam gia’ parlato vedi sopra).

Nonostante fosse quasi logico che io iniziassi un Liceo Artistico o chesso’ un Classico( altra mia grande passione la lettura e in qualche modo la scrittura) gli impreparati miei genitori mi mandarono ad un Istituto Tecnico!

Non e’ questa la sede per domande pedagogiche/genitoriali, ma di domande me ne feci molte.

Finito l’ITIS sono letteralmente scappato dalla mia ridente provincia marina, scappai a Firenze.

Semplice, volevo finalmente continuare a studiare si ma in un ambiente che trattasse Arte.

Accademia?Forse ma troppo lunga , dispersiva, vuota, professori assenti, no ( nel 1989 ora non so eh).

Allora Istituto per l’Arte e il Restauro Palazzo Spinelli, che a quei tempi godeva di un’ottima fama, una sorta di college privato meta di moltissimi stranieri denarosi, io non ero straniero ma sopratutto non ero denaroso.

E qui da manuale inizia la noiosa ma vera storia dello studente d’Arte che per mantenersi agli studi deve fare 3 lavori, che ho mantenuto fino alla fine dell’ultima retta.

Ero felice, mi divertivo con miei “simili”, ho imparato parecchie nozioni, imput utili, ma nessuno mi ha insegnato qualcosa che ha determinato il Baricchi di oggi, istruzione e devo dire di buon livello, ma l’educazione all’Arte non passa attraverso la scuola.

Finisco col dirti questo,  un mio professore di illustrazione editoriale Manuel Fabbrucini, con il quale si era creato un bel rapporto d’amicizia una notte in giro per via Calzaiuoli mi disse:” dipingi?Sei un pittore, punto”.

Mai avuto dubbi dopo di cio’.

Una volta presa coscienza di questa condizione che cosa succede? Parlami dei tuoi primi lavori.

Nel 1991 mi sono invaghito, per puro caso, delle opere di Tapies.

Me le fece vedere su una serie di cataloghi un mio compagno di studi, un caro amico portoghese, dotato di una sensibilita’ per l’informale notevole, e molto disciplinato, serio,.

Fu un’epifania.

Cominciai praticamente a copiare  certe superfici, macchie, gestualita’, scritte, tutto in Tapies mi appariva seducente, sensuale, potente, elgante, e nuovo.

Invece cio’ che ottenevo io erano soltanto un’infinita serie di eventi senza controllo, macchie che non si emancipavano ad altro, decorazioni, ma sostanzialmente delle merde.

Ero frustrato.

Continuavo a provarci ma nulla di fatto.

Nel 1992 parto per il Mexico, dove vivro’ per tre anni.

La pittura certamente era sempre la mia stampella emotiva, ma ero cosi confuso, volevo fare tutto.

E naturalmente non portavo a termine nulla di coerente, di maturo.

Proprio in Mexico vengo a conoscenza di un enorme Artista: Rufino Tamayo.

Un fulmine.

Una sorta di Picasso piu’ nascosto, meno ingombrante ma di un’altezza da far sembrare nano chiunque.

Iniziai cosi’ a rappresentare una sorta di universo pseudo figurativo con accenni nella preparazione del fondo Tapieschi, era un inizio di qualcosa, un “mio” modo, che in qualche maniera e’ presente ancora oggi.

Feci anche un’esposizione al Museo Poliforum Siqueros nel D.F ( Citta’ del Messico ), una collettiva, grazie ad una Galleria che da subito si interesso’ a questi miei lavori su legno, un po’ fiabeschi, surreali ma indubbiamente mediterranei, quindi esotici.

Erano piu’ inclini al mondo dell’illustrazione, che io mai ho disdegnato, ma conscio di quanto pittura e illustrazione possano battere percorsi incapaci d’intersecarsi.

Nel 1995 sono in Italia.

Milano.

G.L.: Perché hai decido di andare in Messico?

Il Messico è stata principalmente un’esperienza culturale o ti ha lasciato dell’altro addosso?

M.B.: Ho inseguito una sottana.

Una frequentazione sporadica a Firenze, e una compagna in una relazione sconsiderata in Mexico.

Incredibile quando penso con quanto coraggio, incoscienza meglio, prendessi decisioni a 20 anni.

Comunque, fatto sta che per tre anni quel paese mi accolse, e in qualche modo mi coccolo’ molto, un gran paese.

Esperienza culturale necessariamente, non potevo sfuggire a cotanta storia, e’ una terra e un’umanita’ pregna d’energia e di racconti, magica, profonda, calda, complessa, religiosa ma felice, con culti, per esempio quello per i morti, cosi lontani dai nostri( nel modo di celebrarli ).

Se devo dirti cosa mi ha lasciato quel periodo di vita?

Una cassa di strumenti per l’indipendenza, mi ha allenato, un vero e proprio training per il combattimento prossimo, in tre anni mi sono mantenuto facendo davvero tante cose, cercando ogni giorno di non tradire la pittura ( in Messico anche i muri ti ricordano che devi dipingere).

Pensa che su consiglio di conoscenti, insistenti, ho fatto anche un casting in un agenzia di modelli, la piu’ importante del Discricto, mi presero e iniziai subito a lavoare, la cosa buffa e’ che a me non interessava nulla fare il modello, per inciso venivo ingaggiato per 3/4 lavori settimananali, e ai quei tempi ti assicuro i guadagni erano alti, e in dollari!

Ma pensavo a trovarmi un tempo per dipingere, sempre, mentre mi chiamavano per casting vari, ai quali spesso non mi presentavo.

Quindi direi questo: una scuola di vita, un mezzo che mi e’ servito da subito tornato in Italia, quando sono arrivato a Milano, direttamente da Citta’ del Messico, mi pareva d’essere in una cittadina di provincia, mi sembrava cosi piccola, e la era rispetto a quella megalopoli da 22 milioni d’abitanti.

G.L.: E del paesaggio messicano dei suoi colori… e rimasto qualcosa nei tuoi dipinti?

M.B.: Eccomi quindi a Milano.

Avevo ancora la luce dell’altopiano messicano negli occhi, e i dipinti di quel periodo risentivano ancora molto di quella esperienza.

milano nel 1995/96 era una città’ con ombre ormai lise degli anni 80, e non era a mio avviso proprio un gioiello, l’avevo scelta per via di un lavoro part time come illustratore in una nota casa editrice.

Ma ormai sapevo che una cosa avrei dovuto fare, provare ad entrare nel circuito o se vuoi chiamarlo mercato dell’arte contemporanea, senza indugiare troppo, volevo vivere come pittore.

In breve quello non fu un bel periodo.

Non cavavo il famoso ragno dal buco.

Sentivo di perdere tempo.

Ora tu mi chiedi se nei miei dipinti le influenze dell’esperienza messicana sono presenti, come sub strato, come un tessuto connettivo.

Per molto tempo si, anzi ti diro’ fin troppo, rossi grassi, arancioni slavati a mo’ di muralisti politici, segni neri pesanti per contorni chiusi.

Con una forte connotazione narrativa, illustrativa.

Ma cio’ che dipingo oggi in realtà’ e’ un anello di una catena che col Messico non centra nulla.

La catena messicana chiamiamola cosi si interruppe un certo giorno a Roma, 1996/97

Conosco Pizzi Cannella e il suo lavoro:boom!

Fascinazione morbosa, che pittore meraviglioso.

Per un anno credo d’aver letto 500 volte un suo catalogo, Ferro Battuto.

E alla GAM di Bologna vidi un trittico enorme da pelle d’oca.

Nulla.

Ecco cosa c’era, c’e’ stato per molto tempo nei miei dipinti, lui.

Fin troppo, difatti accadde un paio di volte di sentirmi dire:” si bravo, si belli, ma di Pizzi gia’ ne abbiamo  uno”.

Inevitabilmente dovetti lavorare sodo per emanciparmi  da tutto ciò, cose che capitano.

G.L.: Nei tuoi dipinti per molto tempo spesso graffiati, incisi con discrezione o appena delineati con il colore, quasi più a voler accennare che a dichiarare la loro presenza compaiono dei personaggi degli oggetti di uso quotidiano vengono dal tuo vissuto di illustratore? Sono portatori di storie frammentarie, che ruolo giocano nei tuoi dipinti? 

M.B.: Dipingere, va bene.

Ma cosa?.

Io sono convinto che la pittura sia una pratica che da origine a teoria, e non il contrario.

si spendono parole e pensieri su l’opera finita.

La teoria, o comunque solo la teoria non produce nulla che supporti davvero la pittura, sara’ pura didascalia.

Conosco molti presunti artisti che hanno bisogno di pile di libri per dar vita ad un disegno ad un quadro, questo e’ cio’ che piu’ si avvicina all’illustrazione.

Illustrazione che sia chiaro io reputo un momento molto importante delle arti grafico/visive, ci sono autori incredibili, virtuosi, davvero creativi nel trovare soluzioni adatte.

Per questi motivi io non sono mai stato davvero un illustratore, il mio punto di partenza e’ sempre un vuoto, bianco, senza testo, senza racconto.

E’ la materia della pittura che agira’.

Se c’e’ un racconto sara’ nella pittura dipinta, che diventa soggetto e oggetto.

Gli elementi che comparivano, che compaiono, a volte spariscono, per poi tornare, sono granelli di una nube d’emozioni.

Non sono solo pretesti pittorici, spesso sono frutto di semplici gesti, allora un graffio potrebbe descrivere una forma ad imbuto, oppure una macchia un profilo di un cane.

Questo accadeva ad onore del vero parecchi anni fa.

Ora la mia pittura ha preso il sopravvento e tende a limitare i piani di lettura, le simulazioni di profondiata’, cerco di esaltare le infinite possibilita’ del medium.

Un periodo specifico nel quale ho gestito un “personaggio” di per se’ gia’ iconico mi rimanda alla mia versione di Pinocchio.

Periodo se posso dire, contrariamente a cio’ che si possa pensare, mai concluso.

La silouette del famoso protagonista collodiano era diventato un feticcio, un testimone silenzioso, ero io, era chiunque, creava una struttura intorno al quale far gravitare una cosmogonia di simboli, di oggetti memorabilia.

L’esigenza di costruire un’immagine che funzionasse mi ha dato l’imput per progettare questa figura, solo dopo le e’ stata affidata tutta una serie di profili sentimentali, malinconia, solitudine, etc.

Da ormai due anni e’ la natura che mi affascina, come oggetto da contemplare, per visione filosofica, non come mera rappresentazione, contemporaneamente mi attrae il bianco, i bianchi, i colori rotti.

Non si puo’ danzare d boxe.

G.L.: Quindi per te la pittura è una condizione in rinunciabile grazie a cui stai compiendo la tua “avventura in un mondo sconosciuto”?

M.B.: Il mondo e’ sconosciuto.

O meglio, possiamo avanzare di cosi’ pochi passi rispetto a tutto il potenziale dello scibile che considerarlo conosciuto mi pare pretenzioso.

Ogni persona, ogni individuo sulla faccia della terra dovrebbe essere in grado di poter riconoscere una via da percorrere, non necessariamente un traguardo, ma una via con direzioni diverse, una roba che ti fa alzare al mattino dal letto, che giustifichi questo essere vivi.

A me e’ stato concesso, con me moltissimi altri, di poter dare un senso, con un fare, che se vai a vedere e’ poca cosa, ma certamente non potrei farne a meno.

Avventura non saprei, il mio impegno spesso e’ ben poco avventuroso, anzi si alimenta e avanza di qualche millimetro grazie ad una routine a dir poco noiosa e ossessiva: dipingere anche se fosse solo per 10 minuti, ogni giorno.

Come P.Roth scriveva almeno 2 pagine al giorno, sempre, io sporco un pennello, magari non concludo nulla , ma ogni giorno.

Odio le vacanze.

Cosa dovrei smettere di fare?Cio’ che mi piace di piu’ al mondo?

G.L.: Nel tuo lavoro come procedi, dipingi un quadro alla volta o lavori per cicli?

M.B.: Nel mio primo periodo dipingevo senza pensare ad una possibile sequenza, che costituisse un ciclo, una serie, i lavori mantenevano una inevitabile coerenza stilistica, fino al punto in cui un gesto diverso, un uso trasversale dello stesso materiale non creava una rottura, un nuovo inizio.

Negli ultimi 10 anni invece dipingo per cicli, per esempio “GERMOGLI.e di stelle” “PANGEA” “SELVA” o l’ultimissimo ” BABEL”.

Per quanto riguarda il lavoro su un unico quadro alla volta in realta’ spesso per esigenze tecniche mi trovo a portarne avanti anche tre/quattro, sono impaziente, non mi piace aspettare.

G.L.: Ti volevo chiedere di entrare nello specifico di questi ultimi cicli di lavori, di cui mi dicevi sopra, dove mi sembra il discorso intorno alla pittura abbia trovato sempre più campo.

M.B.: La pittura.

Dire pittura, dipinti, pittore, e’ cosi semplice, semplice non e’ descrivere cosa accade quando si dipinge, se poi in maniera compulsiva come me… tutto si complica ancor di più’.

Cio’ che dici sui miei ultimi e recenti cicili pittorici e’ molto vero, o meglio, non che prima la pittura non la facesse da padrona, ma agiva in maniera unisona ad altri elementi, disegno, grafica, composizione aurea.

Da tre anni invece ho messo su di un pulpito la materia, e’ la pasta pittorica che cerca di oggettivarsi, questo in SELVA e’ evidente, solo dopo descrivo( inevitabilmente, ricordo sempre che non faccio pittura astratta, che vorrà’ dire poi) un paesaggio, una stanza, una notte palustre etc.

Sfido me stesso ad intraprendere strade diverse, suggerite dalle stesse infinite possibilità’ della pittura di palesarsi, ci si perde spesso, ma certi approdi sono meravigliosi, inaspettati.

In BABEL invece sto cercando di lavorare esaltando il bianco, riprendendo stilemi di qualche mio passato e presentarlo a SELVA, questi universi linguistici differenti danno origine ad un multidioma, dove codici diversi convivono, o perlomeno ci sto provando, introducendo anche modalità con geometrie mai usate, la pittura non finisce.

G.L.: Senti il bisogno di essere circondato, assediato dal lavoro?

M.B.: NO.

Assediato no.

Cio’ che vorrei e’ essere sempre in grado di continuare il lavoro lasciato il giorno prima, con l’urgenza di riprendere il risultato di un inciampo, un errore, che si traduce in pensiero ossessivo, frustrazione.

Non poter continuare questo loop davvero mi disturba, solo quando una dimensione di lavoro mi appaga allora posso concedermi di lasciare, di staccare, quando invece la separazione mi e’ obbligata non sono per nulla a mio agio.

Ecco perche’ con me non significano nulla parole come vacanza o .” che ne dici se stacchiamo un po’?”, per me e’ una specie di incubo, insomma voglio dire non vado tutte le mattine in giacca e cravatta in un ufficio, con un capo sclerato che cerca di annullarmi, a timbrare un cartellino, con il calendario davanti per vedere quanto manca a Natale o ai 10 giorni di liberta’ estiva!

E purtroppo chi non e’ un Artista fa molta fatica a comprendere, sia quando gli si chiede di fare cose quando invece sta lavorando( come se non stesse effettivamente facendo davvero qualcosa di importante) o quando decide per lui i ritmi per prendersi pause etc.

G.L.: A proposito di bianchi ti volevo chiedere del tuo interesse per il lavoro di Giorgio Morandi

M.B.: Morandi, ti butto giu’ una piccola e breve lista inutile: 1) Giotto, Velasquez, Picasso, Richter G.

Questi sono i quattro cardini a mio avviso, ho eluso volontariamente una grande quantita’ di grandi artisti, ma in qualche modo questi quattro li evocano( anche se Picasso non dovrebbe essere in nessuna lista, e’ una sorta di fuori concorso ma per questa volta…).

Bene.

Morandi e’ l’artista che piu’ di altri mi ha sorpreso appena mi sono trovato di fronte ad una sua opera.

Ok, e’ successo qualcosa di intenso davanti a molte opere, Goya mi ha steso come potrebbe fare Tyson Fury con un gancio( anzi morirei) Picasso mi ha fatto dire: ” e ora?” Bacon… che dire.

Ma.

Morandi e’ pura contemplazione, mi siedo capisci?

Come pittore, credo che il mio stupore, il mio sguardo da pittore( come direbbe Berger)condiziona l’esperienza.

Allora mi pongo delle domande, come e’ possibile che questi piccoli quadri abbiano su di me tale influenza?

Le nature morte sono un trattato di come si debba dipingere, usando una palette di colori rotti, pochi, della quantita’ giusta di materia, di quale bianco sporco entri in simbiosi con un carta da zucchero, a loro volta sotto una campitura di un terra di siena pura.

Nulla e’ di piu’, non manca nulla, morbidezza, forza, toni seducenti, linee di contorno che vengono assorbite ma comunque presenti, e tutto questo in composizioni che trattano la rappresentazione/presentazione di oggetti; i soliti, ripetuti.

Questa e’ magia.

Lo e’ per me.

Il bianco mai puro gioca un ruolo in questa seduzione fondamentale, diventa una specie di materia organica elegante, che protegge e esalta, che lascia evidenti i gesti e le direzioni del pennello senza mai incidere, una pittura difficilissima da controllare.

Poi ci sono i paesaggi di Grizzana, che reputo ancora ad un livello piu’ alto delle nature morte, e che mi hanno portato a tentare il pretesto pittorico del paesaggio, come dire:”non e’ cio’ che dipingi ma come “.

La mia ambizione/desiderio e’ quella di raggiungere intensita’ e completezza come faceva Morandi.

Ma mi fanno compagnia artisti molto noti del contemporaneo, Luc Tuymans su tutti, Sean Scully, Lawrence Carrol( R.I.P) e molti altri naturalmente, chi ama la pittura dipinta non puo’ affrontare Morandi.


Mirko Baricchi 
(La Spezia, 1970)

Dopo il liceo si trasferisce a Firenze, dove frequenta l’Istituto per l’Arte e il Restauro Palazzo Spinelli. Dopo il diploma e un breve periodo di lavoro come grafico pubblicitario, parte per il Messico, un viaggio che segna la sua vita d’artista. Qui lavora come illustratore per una nota agenzia di comunicazione americana, ma non abbandona la sua passione per la pittura. In una delle sue numerose visite ai Musei messicani viene folgorato dall’artista Rufino Tamayo. Lascia il lavoro in agenzia come illustratore e poco dopo partecipa ad una collettiva al Museo Siqueros, ricevendo riscontri positivi da parte della critica. Dopo oltre due anni torna in Italia, trasferendosi a Milano, dove lavora nel campo della pubblicità e dell’editoria. In questo periodo matura la decisione di dedicarsi esclusivamente alla pittura. Nel 1998 torna a vivere a La Spezia.

Dal 1992 ad oggi tiene molteplici mostre personali e collettive sia in gallerie private che in spazi pubblici.

https://www.cardelliefontana.com/artisti/baricchi/mirko_baricchi_biografia.html