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il mio primo “vero” amore che ha a che fare consapevolmente con il mondo dell’arte risale al secondo o terzo anno di Liceo. Mi ero invaghito di Yukio Mishima, il grande scrittore giapponese, del Romanticismo che si portava appresso il suo corpo poetico e militare, e del suo drammatico e leggendario suicidio con il rituale del seppuku. Me ne aveva parlato con grande enfasi un amico più grande di qualche anno e mi ci ero buttato a testa bassa, in quegli anni ero una spugna, capace di perdermi in qualsiasi avventura artistica e/o letteraria, l’importante era che tutto fosse intriso di mistero, di dramma, di fascino oscuro, così speravo di ammantarmi degli stessi toni, degli stessi umori. Ero stupido, ingenuo, un sognatore, per fortuna. Così mi capitò in mano un suo romanzo autobiografico del ’48, Confessioni di una maschera, e tra le pagine la celebre parte che descrive la sua scoperta – in un libro d’arte del padre – di un ritratto di San Sebastiano a opera di Guido Reni, la sua eccitazione nel contemplare la “primavera della gioventù” emanata dalla bellezza pallida e delicata del corpo giovane e nudo, le frecce conficcate nella carne, le labbra appena contorte. Come va a finire poche righe dopo lo sappiamo tutti, con l’estasi luminosa della contemplazione della bellezza che si fa scoperta del sesso e orgasmo di un primo atto di autoerotismo.
Dapprima mi colpì l’arroganza di quelle parole dirette e senza censura, poi qualcosa che durante le lezioni di Storia dell’Arte non mi avevano ancora detto, ovvero la possibilità che la fruizione dell’arte non fosse solo una noiosa, per quanto interessante, esperienza colta e distaccata, ma che potesse rivelarsi in alcune sue parti grandi o piccole, essenziali o marginali, esperienza concreta e partecipata del nostro vissuto, del “mio” vissuto. Ecco, il mio primo amore d’arte non è stato, come si potrebbe pensare, “quel” libro o “quel” dipinto descritto o la figura di “quel” giovane eccitato, ma le tre cose assieme, una narrazione con le sembianze di un santo/pagano, un'immagine evocata dalle parole, dalla scrittura, la sovrapposizione indistinta tra l’astrazione di un ideale artistico e la concretezza materiale di un atto sessuale, di un atto vitale. Tutto questo mi si è chiarito con il tempo, in quei giorni avvertivo l’importanza di quegli umori e anche dei pensieri densi che ne derivavano, ma tutto si arenava addosso agli stretti margini della mia ingenuità, della mia ignoranza. Ma su questa mia predisposizione al collage e alla sovrapposizione sghemba di elementi diversi tra loro si è costruita negli anni la mia poetica, e i miei dipinti della maturità posso dire che sono ne più ne meno che il risultato di quel primo amore, anzi di quei primi amori, perché dopo le pagine di Mishima sono arrivate a breve e in rapida successione le parole, le musiche, le sculture, le fotografie, i dipinti, le pellicole cinematografiche, il teatro, la danza di molti, moltissimi altri artisti, e tutti a raccontarmi la stessa verità: in arte un amore non “è” se non ti prende allo stesso tempo la testa e il corpo, la costruzione di un sogno e di un pensiero profondo che vanno a incidere sul tuo vivere il mondo, le cose, le persone. Questo ho percepito in quel lontano giorno, e questo continuo a pensare oggi.


