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Gabriele Landi: Ciao Paolo prima o poi tutti gli artisti, o almeno credo, fanno i conti con il nero e tu?
Paolo Casazza: Nel nero è ripiegata la sostanza del mistero, usarlo significa corteggiare un’assenza (esattamente ciò che è alla base del fare pittorico). Questo ciò che mi irretisce del nero, il conforto estetico di una mancanza di presenza; risulta così poco plausibile non prenderlo in considerazione: possiede la forma dell’istinto sincero che si sottrae all’inganno delle apparenze, è impermeabile alla monotonia poiché esprime un disorientamento, una pulsione a perdersi, il viaggio nell’indeterminato che ci libera.
So essere il nero una dimensione di verità di cui non conosco il significato, mi basta questo perché contiene tutto quello che mi serve.
G.L.: L’arte per te é un’avventura in un mondo sconosciuto?
P.C.: E’ obbligatorio esista una consapevolezza nel fare arte, e che di questa consapevolezza ci si prenda cura: un mondo sconosciuto esiste.
L’espressione artistica ha sempre a che fare con una dimensione che non si conosce, la sensazione di dialogare con un’anima straniera perturba il lavoro di un artista come un processo inevitabile.
C’è poi da considerare la questione del desiderio: dove avviene esperienza di evasione dalla propria zona di comfort si sviluppa una pulsione necessaria: il desiderio dell’ignoto. Questo approccio fa apparire chiara la specificità esplorativa del mestiere dell’artista, la necessità di non conoscere; dimenticarsi del mondo prima di rappresentarlo è l’unico modo per mantenere intatto il privilegio di stupirsene.
La tua domanda è interessante perché mi fa riflettere anche su un’altra tematica: può l’arte (intesa come campo d’azione e non fruizione) essere considerata un viaggio? Ovviamente sì, certo coi dovuti punti di riferimento che hanno a che fare con stile, formazione, eccetera; trattasi però di un viaggio votato al disorientamento, questo il punto: probabilmente non tanto perseguire la pratica di avventurarsi in un mondo sconosciuto quanto allenarci ad essere noi gli sconosciuti nel mondo che conosciamo.
G.L.: E’ sempre molto stimolante cambiare il proprio punto di vista sulle cose, aiuta a vederle meglio. Per tracciare la mappa di questo progressivo perdersi, ti volevo chiedere della tua infanzia. E’ infatti spesso è in questa “mitica età” che si manifestano i primi sintomi di una “malattia” destinata a peggiorare nel tempo a cui poi diamo il nome d’ arte, è stato così anche per te?
P.C.: L’infanzia è un’isola in un mare di nebbia, evocarla significa sempre aprire delle porte. Ogni operazione artistica conserva una memoria involontaria che ripalesa un ricordo, un frammento, rimanda a luoghi di sentimenti: le petit madeleine proustiana per capirci.
Nello specifico ricordo che da bambino si andava spesso nella vecchia casa, rilevata dai bisnonni, per trascorrere i fine settimana in un borgo sul lago di Como pregno di romantico decadentismo. Le passeggiate interminabili nei boschi aggrappati alla montagna, le favole narrate all’imbrunire sul vecchio terrazzo, la fascinazione della vista senza peso spalancata sul lago hanno radicalmente contribuito a formare la mia sensibilità visiva.
Ovviamente le regole del gioco stabiliscono che non bisogna limitarsi alla semplice evocazione dei paesaggi della memoria, bensì sforzarsi a costruire nuove voci per raccontarli.
G.L.: In che cosa il peso è una tragedia?
P.C.: Tutto ciò che mi interessa del peso è che vive dell’incapacità di sgravare, conserva in germe la negazione tragica di un’ispirazione a liberarsi.
Gli elementi naturali che utilizzo nelle mie opere (terra, foglie secche, radici, sassi, ecc.) fuggono il confronto con la liberazione dal peso e il suo conforto, parlano ostentatamente di caduta, di sepoltura, di carico; divengono metafora, e limite, di quell’orizzonte tipicamente umano del vivere.
Viceversa il piacere autentico e indefinibile di “staccarsi” dalla terra è in germe al nostro inconscio, una pulsione primordiale che ha a che fare col gusto del non-essere, l’istinto a smarrirsi nella dimensione dell’altezza.
G.L.: Tecnicamente come procedi, prepari un fondo su cui dipingi o l’accumulo di materia avviene via via che il lavoro progredisce?
P.C.: Ho imparato che la progettualità è un campo che mi appartiene poco, anche se ammiro chi predispone il procedere con l’aderenza razionale agli studi preparatori. Per questo spesso preparo un fondo ma altrettanto sovente accumulo la materia durante il progredire della lavorazione, dipende da opera ad opera e da momento a momento. Assegno alla contingenza un ruolo primario insomma.
G.L.: É una questione di ascolto del lavoro in qualche modo é lui che ti indica cosa fare.
P.C.: Direi di sì, l’azione aderisce sempre ad un processo di ascolto. Siamo abituati a considerare il ruolo attivo dell’azione solo nell’ambito degli Informali, in realtà che il pensiero sia conforme all’azione è sempre una costante del processo artistico, salvo alcuni rari casi si intende (l’ambito concettuale ad esempio, e neanche tutto).
Mi piace l’espressione che hai usato: “ascolto del lavoro”, manifesta l’impressione che l’azione artistica corrisponda ad un dialogo serrato tra l’autore e la sua opera, almeno fino al punto in cui la si giudica conclusa, cioè quando non si ha più nulla da dire perché non si ha più voglia di ascoltare.
G.L.: Esatto! Ti vorrei chiedere dei i punti bianchi che spesso seguendo una griglia appaiono nei tuo dipinti che ruolo hanno?
P.C.: I punti sono delle perturbazioni, hanno di nuovo a che fare con la questione del peso. Spesso li dipingo con un’ombra sottostante in modo da creare la sensazione illusoria che si sollevino dalla superficie della tela: sono tensioni visive atte a creare una traiettoria (una fuga).
Probabilmente quando sono nati, nella fattispecie durante il primo lockdown, devo aver sentito la necessità di tradurre graficamente una quantità seriale di elementi che, svuotati dal loro peso, perseguissero l’istinto dell’abbandono nella tensione ritmica di una sospensione.
G.L.: L’idea di sospensione può riferirsi anche al idea di un tempo sospeso?
P.C.: Non nel mio caso, perseguo solo l’dea completamente spaziale di un tragitto, l’azione di uno spostamento o semplicemente la consapevolezza che esso possa avvenire. Sapere di potermi trasferire da A a B rivela l’esistenza di B come “altro” da A, dunque mi educa all’idea che A non sia l’unico mondo possibile in cui stabilirsi (e anche alla convinzione fondamentale che A sia modificabile).
Il riferimento al tempo può essere riscontrato nel mio lavoro solo come memoria, dunque, contrariamente al tempo sospeso, come l’impressione nitida di un tempo già vissuto, già collaudato, in disfacimento.
Paolo Casazza nasce a Saronno nel 1983, successivamente al conseguimento deldiploma Artistico al liceo di Varese affronta un percorso di studi presso la scuola di grafica e comunicazione “Arte&Messaggio” fondata da Bruno Munari a Milano. Dopo essersi occupato essenzialmente di grafica, seppur dipingendo da sempre, siavvicina alla pittura a tempo pieno complice il primo lockdown: “…poichè di fronte ad un trauma storico e attraverso la ferita l’uomo reagisce al bisogno di riscoprire se stesso; guidato dal pensiero manuale del fare arte ho riconosciuto il privilegio di smarrirmi e nella naturale propensione all’altrove ho scantonato la facciata abituale del mondo come si fugge il nemico agguerrito…”. Il suo lavoro si orienta essenzialmente su tre temi cardine: la natura (intesa come natura vegetale), il tempo (inteso come memoria), la fuga (intesa come escapismo). Ad oggi ha all’attivo esposizioni in Italia e all’estero oltre svariate collaborazioni con enti culturali per la promozione e diffusione dell’arte contemporanea.


La tragedia del peso (dittico), acrilico e vernice su tele, cm 100×70 (ognuna)

La tragedia del peso (e i quadri sepolti), acrilico, vernice ed elementi naturali su tele, cm 40×70

La tragedia del peso (e un quadro sepolto), acrilico vernice ed elementi naturali su tele, cm 60×70

La tragedia del peso -1-, acrilico e vernice su carte, cm 33×48 (ognuna)

La tragedia del peso -2-, acrilico e vernice su carte, cm 33×48 (ognuna)

La tragedia del peso -3-, acrilico e vernice su carte, cm 33×48 (ognuna)

La tragedia del peso -4-, acrilico e vernice su carte, cm 33×48 (ognuna)

Luoghi per perdersi -2-, acrilico ed elementi naturali su tela, cm 80×60

Luoghi per perdersi -2-, acrilico ed elementi naturali su tela, cm 80×60

Luoghi per perdersi -3-, acrilico ed elementi naturali su tela, cm 80×60

Luoghi per perdersi, acrilico e vernice su tela, cm 60×80

Luoghi per perdersi, acrilico e vernice su tela, cm 70×50
