L’ARTE CONTEMPORANEA FRA RICERCA E SISTEMA: SEI ARTISTI IN CONVERSAZIONE CON DAVIDE SILVIOLI

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Alessandra Draghi, Marco Eusepi, Giulia Manfredi, Alice Paltrinieri, Samantha Passaniti e Medina Zabo, gli artisti con i quali mi sono interfacciato in occasione di questo confronto a più voci, sono differenti per generazione, estrazione, formazione e linguaggio. La scelta di rapportarmi con la loro eterogeneità è legata alla convinzione che, non per dare risposte corrette ma per porre giuste domande, sia necessario moltiplicare i punti di vista.

Samantha Passaniti: La figura del curatore deve ricoprire molteplici competenze e abilità, nella delicata attività di curatela. Quali sono gli aspetti di questo lavoro che senti più in linea con le tue attitudini personali e quali invece fai con più fatica?

Davide Silvioli: Il personale interesse per la storia dell’arte contemporanea unito a un esercizio della scrittura che, anche intimamente, pratico da sempre, oltre a rappresentare due aspetti fondamentali, a mio avviso, per chi si avvicina alla professione di curatore, rispecchiano una mia spontanea inclinazione. Pertanto, sento che il ragionare sull’opera, questionarla e contestualizzarla nell’ambito di una rete di precisi riferimenti disciplinari, al fine di restituire il tutto nella logica dell’espressione scritta, costituiscano i tratti di questo lavoro che, senza sforzo, trovo più affini alla mia soggettività.

Di contro, è certo che non sono mai stato un amante dei rituali mondani, delle strategie sociali o delle dinamiche collettive. Ciò, osservando come, talvolta, la capacità di saper facilmente allacciare rapporti strumentali o di attribuire ai propri progetti un’aura patinata e di tendenza sembri ripagare maggiormente rispetto alla concentrazione sulla coerenza critica di una mostra, sulla valorizzazione delle opere dell’artista e sui relativi contenuti, magari, potrebbe penalizzarmi. Altrettanto certamente, sostengo che tale modus operandi è perfettamente opposto al mio modo di interpretare la critica e la curatela. Seguo l’unica strada che sono capace di percorrere.

Marco Eusepi: Cosa è per te la curatela? La figura del curatore è relativamente recente rispetto a quella del critico d’arte, distaccandosi da una formazione propriamente storico artistica e aprendosi a diversi ambiti disciplinari. Quali credi siano le differenze sostanziali tra lo storico dell’arte e un curatore di nuova generazione?

Davide Silvioli: Intendo la curatela come un’attività principalmente intellettuale che, in un secondo momento, deve restituirsi, attraverso l’allestimento, la selezione delle opere, la scrittura e il confronto con lo spazio, sul piano pratico. Essa, per me, è un supplemento della critica militante.

L’odierna professione del curatore, soprattutto se indipendente, comprende una serie di incarichi che, ai tempi del critico d’arte, spettavano alle strutture espositive. Il reperimento di fondi e di sponsor, la comunicazione, la gestione del budget e la preparazione della documentazione fanno, oggigiorno, tanto parte dell’attività di curatela quanto la scrittura critica, la selezione delle opere e il progetto d’allestimento. Logicamente, non è così in tutte le situazioni e anche questo varia in base alle condizioni di lavoro. Infine, personalmente, credo che un curatore competente debba avere, in primis, una solida formazione da storico e critico d’arte, nonché una certa confidenza con la filosofia; il resto si può imparare con l’esperienza. Diversamente, saremmo solo organizzatori di eventi o gente che appende quadri.

Alice Paltrinieri: Quando curi una mostra, come comincia la riflessione sulla scelta delle opere e la loro sistemazione nello spazio?

Davide Silvioli : Quello che in me fa scattre l’impulso di pensare una mostra, sono sempre il confronto solitario con le opere e il dialogo con l’artista. Devono riuscire nel creare in me un nuovo punto di vista. Personalmente, quindi, attribuisco un compito prioritario ai lavori e alla loro natura estetica, sempre nel ricercato tentativo di raccordare il loro respiro con quello dello spazio, dell’architettura e dell’identità del luogo ospitante. Tuttavia, quando autentiche e autonome, sono le opere a definire e plasmare lo spazio; non il contrario. Un progetto riuscito, infatti, è il punto d’equilibrio tra questi contrappesi e le loro reciproche influenze. Per la medesima ragione, è qualcosa di fragilissimo e che, nonostante l’applicazione coerente di una visione e di una metodologia, si ottiene quasi sempre per imprevisto.

Samantha Passaniti: Quali sono le caratteristiche che, secondo te, devono avere un artista e un’opera d’arte per definirli convincenti, sia da un punto di vista prettamente emotivo che razionalmente qualitativo?

Davide Silvioli: Non credo, banalmente, si possa stilare un parametro univoco in un universo che, come quello dell’arte, dovrebbe fare della differenza la propria cifra costitutiva. Tuttavia, laddove non vedo l’effetto di convenzioni, spesso riscontrabile nella creazione di un’opera autosufficiente e in grado di oltrepassare i confini del consueto o dell’unanimemente condiviso, sono portato a riconoscere un autore di valore e il peso specifico della sua ricerca. Quest’ultima, ormai sempre più contorta fra le pieghe increspate del sistema dell’arte contemporanea, è e sarà sempre il fattore chiave per cogliere il potenziale di un artista e il grado qualitativo del suo operato.

Marco Eusepi: A fronte di un crescente e consolidato interesse verso i nuovi linguaggi dell’arte, con rimando anche alle nuove tecnologie, la spinta verso la pittura si conferma come un istinto sempre attuale della ricerca artistica. Quale è, secondo te, il ruolo che la pittura dovrebbe assumere e cosa può ancora dire nella nostra contemporaneità?

Davide Silvioli: Concordo sul fatto che la pittura costituisca uno strumento espressivo sempre e comunque attuale. Difatti, a determinare la pertinenza di un medium è la sua capacità di rinnovarsi e di reagire, con coerenza, al proprio tempo. La pittura l’ha dimostrato in più occasioni, diventando un tratto endemico della creatività umana e della nostra cultura visiva. È altrettanto vero che, alle volte, sembra che la pittura odierna sia ostaggio di una sorta di maniera contemporanea, che ne erode il congenito potenziale d’innovazione e la fossilizza nella sicura reiterazione di stilistiche ormai sature, fino a ridurla – nel peggiore dei casi – a semplice arredamento. Forse, si tratta di un contraccolpo della nostra società, intimorita da un futuro quantomai angosciante, ma è anche una constatazione che, a ben vedere, minaccia la pratica di qualunque altro mezzo narrativo.

La pittura che è sopravvissuta alla propria epoca, così come quella che sopravviverà a questa, non è quella che si è arroccata in sé stessa ma quella che, senza dimenticare la propria memoria millenaria, ha saputo concedersi, costruttivamente, a derive, permeabilità, contaminazioni e nuove ipotesi.

Giulia Manfredi: Come può rinnovarsi il sistema dell’arte per poter rimanere a galla e che ruolo ha l’arte che dialoga con la natura in questo periodo di incertezza e crisi?

Davide Silvioli: La recenti vicissitudini che, conseguenti al dilagare della pandemia, hanno visto la chiusura di musei, gallerie, fondazioni e studi d’artista hanno dimostrato, di riflesso, che il sistema, così come è impostato, deve necessariamente andare avanti. La triangolazione fra artista, gallerista e collezionista, ovvero tra fornitore, rivenditore e acquirente, seppur traslata sul piano virtuale, ha continuato a essere fondante e immutata.

Forse, in un periodo di metamorfosi drastiche come quello coevo, occorrerebbe essere capaci di superare questa triarchia tradizionale ed eleggere a costante valutativa la qualità del lavoro, anziché la congruenza a parametri di commerciabilità, al fine di conferire centralità unicamente allo spessore della ricerca artistica, sottraendola, in tal modo, dall’aggressione da parte di automatismi che con l’arte hanno ben poco a che vedere.

In quest’ottica, il confronto degli artisti con il dato naturale, che esso avvenga mediante il prelievo, la conversione o la contestualizzazione dei suoi elementi, oltre a condurre l’arte al di fuori dei luoghi canonicamente deputati alla sua esposizione, permette di porre l’accento su una questione aperta, urgente e irrisolta della nostra attualità. Il pensiero contemporaneo è sprovvisto di un’etica sugli enti di natura. Pertanto, in questa prospettiva, il punto di vista degli artisti potrebbe sensibilizzare una nuova visione del naturale e della società, in contrasto a quella odierna dove la tecnica è divenuta il solo soggetto della storia.

Alessandra Draghi: Rigenerare e rigenerazione. L’amore esasperato per i materiali. L’amore per le cose, tutte. I nuovi artisti producono sempre di più. Quand’è che l’arte diventerà ecosostenibile?

Davide Silvioli: Sicuramente, è vero che, al giorno d’oggi ma, a ben vedere, da almeno quarant’anni, ha preso consapevolezza l’attitudine di fare arte con qualsiasi strumento. In fondo, ciò appare come una corrispondenza della nostra condizione contemporanea, dove la scienza ci dimostra che l’intelligenza della natura è dappertutto, che la vita è ovunque e si annida anche nelle porzioni del mondo ritenute, fino a prima, inanimate. Per esempio, si veda come la luce per diffondersi preveda che un fotone venga fagocitato da un elettrone che, dopodiché, genererà, a sua volta, un altro fotone ancora. Qui, si intravedono sopravvivenza, riproduzione e autoconservazione.

Forse anche a fronte di questo, si sono sviluppate, nel corso degli ultimi decenni, correnti di pensiero e tendenze artistiche mirate ad approfondire la relazione dell’arte con l’universo organico, biologico e naturale. A tal proposito, ricordo gli studi di Alan Sonfist, Barbara Nemitz, Sue Spaid e Heike Strelow, finalizzati ad argomentare teoricamente il legame in questione. Sugli effetti di questa linea d’indagine sono nati i movimenti dell’Eco-Arte, della Bio-Arte e dell’Ecovention, tutti indirizzati a vagliare le possibilità di interazione fra arte ed ecosostenibilità. Indubbiamente, si tratta di una problematica cogente che, per fortuna, sta acquisendo sempre maggiore riconoscibilità ma, per la stessa ragione, costituisce anche un trend momentaneo da cavalcare per molti artisti e curatori, che si improvvisano in questo territorio. Nuovamente, dunque, la critica deve tornare a fare selezione.

Medina Zabo: Paul Foster, curatore alla Saatchi Gallery, mette “la serenità” – happiness – al primo posto dei parametri con cui un artista emergente dovrebbe valutare i progressi di carriera. Sei d’accordo? Quali suggeriresti?

Davide Silvioli: Mi sembra una visione piuttosto naif se non, addirittura, fuorviante rispetto alla realtà di un sistema dell’arte chiuso, esclusivo ed elitario. A meno che per “serenità” non egli intenda quella economica, per progredire, se di carriera stiamo parlando, occorrono, soprattutto e molto di più che in qualunque altro settore, impegno, programmazione, resilienza e tantissima tenacia.

Se non si possono seguire corsie preferenziali, riuscire nel percorso da artista richiede ogni attimo della propria capacità di sopportazione; della propria fatica. L’arte deve essere il fulcro su cui sono imperniati e si adeguano tutti gli altri aspetti della vita, deve precedere i piaceri e gli affetti. Forse, per questo e nonostante tutto, credo ancora nell’indipendenza dell’impulso creativo dei veri artisti dai meccanismi del sistema e da sovrastrutture di sorta. Magari non raggiungeranno mai battute d’asta a cinque o più zeri, contratti con gallerie che operano al pari di fanchising o la vetta del ranking di mercato ma sono loro che, con l’autenticità del loro lavoro, generano la linfa di cui un curatore ha bisogno, per continuare a vivere nel modo più vero questa professione. Tutto il resto è palcoscenico.

Alice Paltrinieri: Che ruolo ha per te l’artista nella società di oggi e quale invece secondo te dovrebbe avere?

Davide Silvioli: La proiezione sociale dell’artista e, di conseguenza, dell’arte in generale rispecchia sempre i caratteri dell’epoca che la genera. In un presente storico complesso come quello corrente, dove ci dichiariamo globali ma siamo immersi nelle contraddizioni parossistiche di una postmodernità irrisolta, il ruolo dell’artista asseconda una pluralità di desinenze. Mentre, da una parte, persiste una vulgata che immagina l’artista come un inquieto chiuso nel suo studio intento a creare, affibbiandogli ancora la veste sociale dell’eroe romantico, da un’altra, l’arte rimane un passatempo per classi ad alto reddito, utile ad accreditare il proprio status, nonché uno strumento impugnato da cenacoli meramente modaioli. Esiste, per fortuna, anche una variante, estremamente attuale, che riscatta gli artisti da visioni romanzate, dagli effetti del mercimonio o da quelli della vanagloria e che li vede collaborare con importanti aziende, istituzioni politiche e programmi comunitari.

Ritengo che quest’ultima sia la più proattiva e la migliore per confrontarsi con i nostri tempi. Non dico che, come utopisticamente fatto negli anni Settanta, l’arte debba essere al potere ma reputo che debba essere reinserita nel campo discorsivo della vita quotidiana e che, ugualmente, il pensiero artistico e critico, nonché l’alternativa culturale che essi originano, debbano essere considerati un valore rilevante e, più frequentemente, venire coinvolti nei processi decisionali relativi ai temi urgenti della contemporaneità, al fine di ripensare i modelli di sopravvivenza.

Sfortunatamente, la vera arte non urla come sono soliti fare gli apparati sociali di leadership e, pertanto, per giungere a quanto supposto ci vorrà molto tempo; quasi certamente non avverrà mai.

Giulia Manfredi: In un momento così difficile, caratterizzato da stravolgimenti profondi sia a livello sociale che a livello climatico, ha ancora senso il lavoro nel campo dell’arte?

Davide Silvioli: Il lavoro nel campo dell’arte, seppur relegato dall’opinione dominante corrente a compiti gregari, è e sarà sempre uno degli indici più attendibili per stabilire il grado d’evoluzione della sensibilità di una società. Esso, laddove una comunità permetta che gli artisti possano, davvero, vivere esclusivamente del proprio lavoro, registra e monitora il livello di complessità di pensiero della stessa, unico mezzo per dotare i soggetti di senso critico, sfuggire alla barbarie umana e all’abbrutimento dell’individuo. È normale che, allo stato delle cose, in un mondo superficialmente piegato al senso dell’utile e al funzionalistico, contrassegnato da sistemi oggettivamente al collasso e, per di più, dove il marketing e l’omologazione corrono alla velocità della rete internet, l’impegno creativo non abbia una collocazione preposta.

Indubbiamente, esistono questioni che, dalle problematiche ambientali a quelle economiche o umanitarie, causano un effetto più immediato e tangibile sulla vita degli individui ma, ciò nondimeno, personalmente, non credo che il coevo depauperamento culturale sia molto meno preoccupante. Alla base di ogni crisi epocale c’è sempre una crisi di pensiero. I fatti rispecchiano le mancanze e gli eccessi della  teoria che li partorisce.

Quindi, in un mondo sempre più avviluppato intorno alla propria marcescenza, fare arte e occuparsene, nonostante tutto, si configura come un atto di nobile ma incompresa resistenza.

Medina Zabo: 2020, odissea nello spazio: l’arte si è scoperta “mainstream”, online e offline: nella nuova “piazza” come reimmaginare la figura curatoriale?

Davide Silvioli: Da che mondo è mondo, il sistema scandisce i propri attori, distribuendoli in una stratificata rete di relazioni. Come sottolinei, che sia offline o online, sussiste una proporzionalità diretta fra l’accessibilità di una proposta artistica, la possibilità di arrivare a un pubblico vasto e implicazioni clientelari. In questo trinomio rivestono un ruolo primario non solo le esposizioni e gli organizzatori ma, in particolare, i mezzi di comunicazione. Ovvio ammettere che, nella nostra civiltà ipermediatica, la digitalizzazione permetta un riverbero pubblicitario inedito, seppur il virtuale rimanga una vetrina sì fruibile simultaneamente da chiunque ma che, tuttavia, deve necessariamente essere sostanziata.

Credo che per un curatore, così come per un artista, non sia facile muoversi fra i delicati equilibri di uno scenario tanto intricato come quello attuale, spesso fondato più sull’arte del compromesso che su quella vera e propria. Sento di dire che, logicamente, sarebbe ingenuo non riconoscere che scendere a patti non sia una parte integrante dei rapporti lavorativi ma, allo stesso tempo, sono fermamente convinto che cercare di mantenere sempre un coefficiente minimo di qualità in ciò che si realizza, sia in ambito artistico che critico o curatoriale, rappresenti la variabile che, con il tempo, ripaga sempre di più.

Alessandra Draghi: Oggetto e oggettuale. Collezionare e collezionismo. Ma i collezionisti navigano veramente sul Web?

Davide Silvioli: Ritengo, scontatamente, che il web consenta al lavoro di un artista una risonanza mediatica assoluta, costituendo, magari, il primo momento d’approccio da parte di un collezionista nei confronti del suo lavoro.

Ciò nondimeno, però, la visita e il godimento virtuale non riusciranno mai a sostituire l’esperienza fisica dell’opera. Ci sono lavori che, per peculiarità estetiche o tecniche, non risultano digitalmente leggibili nella loro integrità e questo traccia un discrimine alquanto significativo fra chi, accontentandosi della fruizione online, vede nell’acquisto un mero investimento e chi, mosso da intenti opposti, per decidere di comprare, deve venire colpito dalla visione reale del lavoro, condividerne lo spazio e instaurarvi, così, una reciprocità emotiva.

In ultimo, ahimè, bisogna riconoscere che quando un ente – in questo caso l’arte – si incapsula in un sistema finisce nel ricalcarne i meccanismi, perdendo, nei casi più estremi, la propria natura. Con ciò non voglio condannare il mercato a prescindere, si tratta di un apparato che ha sempre convissuto con la produzione artistica, alle volte alimentandola, altre soffocandola. Tuttavia, nonostante il mercato risponda a indici razionali, quale – fra i tanti – il rapporto tra domanda e offerta, è comunque suscettibile agli effetti irrazionali, sia positivi che negativi, della passione umana. Qui le passioni in antitesi sono due: quella per il denaro, ovvero il nuovo generatore simbolico di valore, e quella per l’arte, quindi qualcosa dotata di un valore endogeno.

Davide Silvioli. Critico d’arte contemporanea, ha curato mostre in gallerie, spazi indipendenti e istituzionali. Ha tenuto conferenze in Italia e all’estero. Suoi testi e ricerche sono pubblicate su cataloghi, magazines specializzati, monografie ed edizioni di gallerie. È curatore di archivi d’artista e contributor di riviste di settore. Collabora con fondazioni, con musei pubblici, case editrici e università, a progetti di ricerca e curatoriali.