#paroladartista #intervistaartista #francescolauretta
Gabriele Landi: Ciao Francesco, ha sempre dipinto o sei arrivato alla pittura in tempi recenti?
Francesco Lauretta: Ho sempre avuto remore a definirmi pittore. A ogni modo ho esposto le mie prime prove di pittura nel 1999 nella galleria di Carbone, a Torino. E neanche pensavo poi che avrei continuato a dipingere ma, da allora, ho iniziato a riflettere e pensare come risolvermi come artista. Essere un pittore era come se indossassi una maglietta stretta e più che pittore mi sembrava di fare tassidermia. Solo negli ultimi anni, risolti i miei problemi con questo medium, mi sento a mio agio con i nuovi panni. In breve sono diventato pittore. Ma tutto è stato stressante, per me.
Gabriele Landi: In precedenza che lavori facevi?
Francesco Lauretta: Oh, sono trascorsi molti anni ma mi piace sempre pensare alla mia prima mostra, a soli 17 anni, a Ispica, giovanissimo, esposi all’ex mercato un tavolo con una tovaglia bianca decorata sui bordi con degli omini che poi scoprii prossimi a quelli che faceva A.R. Penk. E, sul tavolo, erano esposte pietanze locali, come scacce, arancini, cannoli, vino. Il pubblico poteva accomodarsi e partecipare, con me, a consumare, convivialmente, tutto quanto. Inoltre avevo esposto una lapide con fiori e un autoritratto. Era il 1981. Poi sono stati fondamentali le lezioni di Emilio Vedova e l’amicizia di James Lee Byars che ha, senza dubbio, influenzato, il mio operato dei primi anni di lavoro e le esposizioni, almeno fino al 1996. Realizzavo soprattutto opere olfattive e sculture apparentemente minimal ma che in verità erano ‘narrative’ seppur realizzate con un processo di un’antica laccatura totalmente bianca che rendeva quei corpi ‘elementari’, sensuali al tatto e profumate -anche perché infine passavo un velo di borotalco che cancellava ogni residuo e gesto della mano operosa. Il lavoro vero e proprio però era un intenso studio mentre le opere erano il risultato di lunghe riflessioni intorno all’opera, e la sua sparizione. Generalmente affidavo ai maestri artigiani la realizzazione di queste opere. Esponevo invece i progetti come grandi cartoline su pergamena bianca e lettere che erano indirizzate al pubblico e che di volta in volta si rinnovavano con spedizioni durante le mie mostre. “Percorso dal profumo”, o “Destinazioni”, erano, per esempio, due titoli delle prime mie prove significative come artista.
Gabriele Landi: L’arte ti ha portato a girare in che città hai vissuto? Anche i luoghi in cui hai vissuto, oltre alle persone, hanno una loro importanza nel tuo lavoro?
Francesco Lauretta: Ho lasciato l’isola appena ho potuto perché seppur c’era un ambiente eccitante a Siracusa nei primi anni ’80, volevo conoscere, e Venezia è stata la mia prima città dove sono approdato. A Venezia, anni benedetti, a parte la fortuna di avere un maestro come Vedova, che era entusiasmante, e James Lee B., c’erano ragazzi molto dotati come poi non ne ho trovati in altre parti. Terminati gli studi mi sono spostato a Torino e per molti anni ho galleggiato in quella città che era, letteralmente, almeno fino al 1997, la città operaia, grigia, chiusa afferrata prepotentemente dai suoi artisti e, credo, sia stata questa esperienza, nonostante avessi avviati i miei primi passi, poco felice. Non ho lasciato nulla a Torino anche perché la scomparsa di Guido Carbone aveva lasciato in me un vuoto e amarezza profondi. Guido è stata una persona straordinaria che mi ha aiutato molto, soprattutto ad avere fiducia nel mio progetto – d’altronde è stato su suo suggerimento che ho cominciato a dipingere. Ci si incontrava quasi tutti i giorni ed era un piacere poter condividere quanto mi zampillava in testa. Allo stesso tempo c’è stata anche l’esperienza milanese, strana, piacevole ma non del tutto compresa. Vivo a Firenze adesso. Venire qui è stata una fortuna perché solo qui sono potuto crescere ulteriormente perché liberato da croste ereditate negli anni 90 e i primi dieci anni del nuovo millennio, e per croste intendo un certo modo di intendere l’arte e l’opera degli artisti. Non è che succeda molto qui, a dire il vero, ma l’amicizia fraterna con Luigi Presicce, con Marco Pace, Anna Capolupo, Pietro Gaglianò, Daria Filardo, Stefano Giuri, Matteo Coluccia, ha aperto brecce ed entusiasmi che sembravano sopiti. Naturalmente Milano è ritornata grazie Giovanni Bonelli e recentemente mi hanno entusiasmato i ragazzi catanesi grazie alla collaborazione, neonata, con Collica & Partners. Non posso fare a meno di confrontarmi con gli altri artisti, direi che amo stare con loro anche se poi, disgraziatamente, come pittore, sono costretto a vivere di fronte alle mie tele, ai miei libri, “appartenere” a me stesso cosa che comunque amo fare. Una mansione d’onore spetta alla città di Palermo e i suoi artisti che mi hanno accolto sempre con affetto, città che amo particolarmente e che è la sola in cui mi sono sentito effettivamente a casa.
Gabriele Landi: Come sei entrato in contatto con James Lee Byars e che tipo era?
Francesco Lauretta: Di James era apparsa una recensione, e poi un articolo corposo, su TM. 1984. Sapevo che spalmava la sua vita vivendo per lunghi periodi dell’anno in alcune città da lui amate, e bellissime. Venezia era una di queste. Era facile vederlo per le calli, e soprattutto nei bar dove trascorreva, spesso, intere giornate. La prima volta che lo vidi, da Gino – bar nei pressi dell’Accademia, dove si andava quotidianamente – mi feci coraggio e mi presentai. Era vestito di bianco con uno splendido cappello a tesa larga, stava scrivendo e sul tavolino teneva alcune cartoline. Chiese il mio nome che scrisse con una penna rossa su una cartolina dove era riprodotta l’opera il “Monaco in riva al mare” di Caspar David Friedrich e cominciò a tempestarlo con le sue famose stelline finché quel nome ne fu quasi coperto – una copertura di stelle -, tanto da brillare. Gli dissi che avrei tenuto una tesi sulla sua opera – vita. Quattro anni dopo, giorno della presentazione della tesi intitolata semplicemente “JLB??” con caratteri dorati su cover bianca, fummo chiamati ad andare nel cortile perché dovevamo assistere a qualcosa. E lì, con la sorpresa di tutti, in mezzo al cortile, c’era James Lee Byars vestito d’oro, con una benda nera e lo splendido cappello nero a tesa larga, in mia attesa, guanti neri di velluto. Con un cenno del capo mi invitò a mettermi dinanzi a lui, dopodiché si avvicinò e con un semplice, breve, veloce, quasi impercettibile gesto mi consegnò un piccolo opuscolo, ermetico, dove, intuivo, era stampato il suo nome. E così come era apparso, sparì. Aveva reso dono del mio lavoro con una delle sue performance misteriose, fugaci, perfette. Una volta, passeggiando per le calli, osservando il canale Grande che s’apriva dinanzi a noi, disse: Francesco, guarda laggiù, non è splendida quella torre dorata?… Sì, James, davvero splendida. Non c’era nulla sul canale ma la vedevamo entrambi.
Gabriele Landi: E Vedova invece era il tuo professore all’Accademia?
Francesco Lauretta: Vedova l’ho conosciuto in una prova di disegno dal vero. Per accedere all’Accademia di Venezia ho dovuto sostenere degli esami, e la prova di disegno della modella era la prima che bisognava sostenere. Mi vide disegnare e fu molto colpito di come mi muovevo su quel pannello nero con il grande foglio bianco. Chiamò il suo assistente e fece sistemare una serie di fogli, incitandomi a disegnare sempre più velocemente. Dopo un paio di disegni cominciò a disegnare assieme a me. Praticamente ci rincorrevamo nello stesso disegno: lui disegnava suol mio, e io nel suo. Formammo una specie di balletto, un doppio passo diremmo oggi, e una trentina di disegni. Alla fine mi abbracciò e da allora fu il mio maestro. Mi chiamava “figlio del sole”. Era un docente straordinario, per molti “cattivo” ma a me rubava molti disegni. Non ho mai dipinto nella sua aula.
Gabriele Landi: Quando scrivi nella didascalia dei tuo lavori mistura mi viene in mente l’alchimia e una mia intuizione sbagliata o c’è qualcosa di fondato?
Francesco Lauretta: Mistura, mi riferisco qui ai “Disegni brutti al tempo del C” e ai “Disegni dell’Arca”, opere poi installate a Milano nella mostra intitolata “Ai miei tempi”, hanno qualcosa di ‘alchemico’ sì ma l’idea è sorta quasi accidentalmente nel senso che ogni ritratto realizzato poteva essere eseguito con lo scarto di colore che avevo utilizzato quel giorno – realizzavo un ritratto al giorno, e ogni ritratto suonava come una campana a morto, al tempo del C. – e lo scarto era indefinito nel senso che il materiale poteva contenere colori improbabili che andavano dagli oli, impastati e sporchi, agli acrilici, e i solventi e l’acqua si mischiavano creando schizzi di colore che non controllavo anche perché questi ritratti sono stati realizzati rigorosamente dentro i 3 minuti fino ai 5 secondo desiderio. Lo scarto, deposto nella paletta, si rianimava in qualcuno, un ritratto o quasi, risorgeva in qualche modo. Non so se questo ha a che fare con l’alchimia ma sicuramente affermare che quel “disegno” fosse stato realizzato con una “mistura” di colore ha qualcosa che, come “intuisci”, solletica un’idea diversa rispetto al generico colore ad olio su carta o tela, o acrilico su carta. In breve la “mistura” su carta fa’ di quella carta un foglio che ha un peso diverso, un quadrato (22 x 22 cm. ogni ritratto) pesante, che mostra anche la materia di cui è fatta l’opera – non solo l’immagine.
Gabriele Landi: Talvolta ti ho visto indossare una maschera mentre dipingi, esiste una dimensione performative nel tuo lavoro?
Francesco Lauretta: Quello della maschera è un progetto aperto. Il progetto realista che apre la pista verso parte dell’opera pittorica mi aveva messo nella condizione di esporre una maschera specchiante che consentiva, a chi mi stava difronte, di intravedere e quanto realizzassi in quel momento -maschera indossata spesso durante le “lezioni” della Scuola di Santa Rosa- e di percepire la realtà, e il Reale, in modo sempre ambiguo, difficile da comprendere pienamente. “Las Meninas” di Velázquez è stata la sorgente di quella intuizione che col tempo è cambiata: maschera turchese, dorata, gialla infine per Pasavento, quindi cambiata la ‘postura’ della maschera, e del suo uso. Da sempre il mio corpo è intervenuto intorno alla pittura in modo performativo fino a esserne protagonista nel momento in cui ho compreso che la mia ‘figura’ era diventata, come dire, quasi un’icona, ma anche meme, attraversando le sembianze di san Gerolamo, di Pasavento che, da un paio di anni, ha cominciato ad esporre da solo.
Gabriele Landi: Raccontami meglio quest’ultimo passaggio?
Francesco Lauretta: Per me aver sposato il reale, o l’immagine del reale, con la pittura, è come fare (quasi) un ready made. Rifare è un gesto di comprensione. Copiando, così come avevo cominciato, per esempio con le “fotocoppie” (1993), affrontavo il reale attraverso la sua immagine. Ridipingere un’immagine è un creare e mostrare di nuovo. San Gerolamo, Pasavento sono, come posso dire, una espansione o una schizofrenia malinconica, o una disintegrazione dell’Io. Sono un modificatore anche perché la mente si modifica, ogni cosa si altera semplicemente perché crescendo, operando dentro un tempo doppio, spesso, la percezione di un prima si rileva alla fine solo adesso, o viceversa. Per esempio “I Sucati” (“espulsi”, quadri ridipinti) erano il risultato di queste percezioni che attraversavano la percezione del tempo indipendentemente dal suo corso: passato, presente, futur… . Muovendo la mia testa, in maschera, una maschera specchiante, metto in agitazione, e non in controllo, la percezione delle cose. La maschera necessaria all’uomo fonda il proprio esserci… inietta inquietudine in “perenne metamorfosi”. Pasavento è nato dalle conseguenze di un romanzo di Vila-Matas, “Dottor Pasavento”, e mi ha consentito di pensare a questo artista come non fossi io stesso ma un personaggio, un artista inventato. A me piacerebbe parlare non di come ho dipinto e dipingo adesso ma di come vorrei dipingere. E quando dipingo, come vedrai anche a Carrara, dipingo come non ci fosse un autore ma come se l’autore fosse un collettivo. Nelle opere incontrollate intravedo le vie del futuro (ecco qui la parola esposta senza i tre puntini).
Gabriele Landi: Che cos’è la Scuola di Santa Rosa e come è nata?
Francesco Lauretta: La Scuola di Santa Rosa nasce a Firenze dall’incontro con Luigi Presicce, la necessità sentita di incontrarci e disegnare dal vero è stato l’avvio a quella che poi è diventata la “Scuola”; le prime volte sulle rive dell’Arno, come i pescatori, e poco dopo a 50 metri dall’Arno, nel giardino e Bistrot di Santa Rosa. Era il 13 ottobre del 2017. La Scuola di Santa Rosa è un’opera d’arte. Ogni martedì, da quel giorno, si rinnova questo appuntamento che col tempo ci vede operanti in quegli spazi, ma soprattutto ci concedono momenti di assoluta libertà dove ognuno partecipa realizzando minuscoli miracoli, disegni, e in quelle ore mattutine abbiamo imparato a strappare e vivere diversamente il tempo, spesso nevrotico e veloce. Ma nella Scuola di Santa Rosa non si insegna nulla, come nell’Istitut Beniamenta, di walseriana memoria, s’impara la bellezza dello stare al mondo. In questi anni, naturalmente, la Scuola è cresciuta tanto che spesso siamo invitati in varie posti, sia in Italia che all’estero, a strappare quel momento felice di libertà. A noi due, successivamente e sempre, si rinnovano i partecipanti, giovani artisti soprattutto, amici ma anche scolaresche, a volte poeti, scrittori, curatori, altro. Un momento di condivisione lontano dagli spasimi degli incontri abituali che ci vogliono presenti solo alle inaugurazioni, lontani da pressioni di prestazioni si vive serenamente in quelle ore. Abbiamo prodotto migliaia di disegni di artisti di ogni dove, e ogni volta la bellezza si rinnova -tengo un diario di bordo dove segnalo quanto accade nei martedì della “Rosa”-, si espande. Per tanto, qualcuno l’ha definita “sovversiva”.
Gabriele Landi: Prima abbiamo parlato dei piccoli ritratti ora ti volevo chiedere dei quadri grandi che spesso rappresentsno delle processioni. Questi lavori sono dipinti in modo diverso dai ritratti, puoi parlarne?
Francesco Lauretta: Uh, in verità sono i “quadri meno dipinti” quelle delle processioni, ma tant’è molti ricordano il mio lavoro delle processioni. Le ultime processioni le ho realizzate per la mostra “Due volte”, due, una piccolissima tela, quasi una miniatura, e una grande che riproduceva la mia prima realizzata, 1998, esposta in “Valori plastici” dal titolo “Idola”, poi “Idola remix” nel 2017. In effetti ne ho realizzata anche un’altra, nel 2020, che però faceva parte di un polittico, stretta da altre 5 tele con cornici bicolore, Le bagnanti, dal titolo “Como siempre”. Quest’ultima, rispetto alle prime, è dipinta in modo differente: non più stressata, super-reale, ma “alterata”: le figure, il santo, uno splendido san Michele, i nastri colorati, sono stati dipinti con colori improbabili, direi ‘esotici’. La percezione della festa così m’è apparsa non tanto prossima al realismo, o alla prossimità della sua immagine ma a qualcosa che ha a che fare con il “festivale”, a colate di gioia. In Valori plastici “Idola” era parte di una installazione che comprendeva due quadri per stanza e ogni stanza aveva un nome, in quel caso “Idola” era assorbita da un altro quadro che riproduceva un attentato a Tel Aviv. Poi sono apparse, le processioni, prepotentemente ne “Le metafisiche”, personale a Milano con due grandi processioni, “Sotteso blu assortito” e “Rosso sciantoso” (2004). Altre sono saltate fuori periodicamente. Dovessi elencarle non credo poi di averne dipinte molte, una all’anno forse ma è evidente che non passano inosservate anche se inizialmente non capivano perché le dipingessi. Dai titoli sopra puoi comprendere che se da un lato mi interessava esporre il rito, dall’altro mi consentiva, dipingere la folla festiva, di pensare alla pittura e al fenomeno della percezione del colore – Rosso sciantoso e Blu assortito, ecc. – come forma “mortale” (ricordo che ero un imbalsamatore) in perenne tensione con la vita ripetibile, tipico delle feste. Più elaboravo l’immagine più l’immagine riusciva imbalsamata, corpo morto in bellavista. Come è naturale oggi rivedo e dipingo le processioni diversamente rispetto a 10, 15 anni fa, e se le dipingo è perché del rito della festa mi interessa il suo processo narrativo, e della sua trasgressione in un mondo equivalente a un conformismo vuoto.
Gabriele Landi: L’atto del dipingere di per sé può essere letto come un rito, forse queste processioni possono esserne l’immagine tautologica?
Francesco Lauretta: Potrebbe anche essere così, le opere naturalmente si lasciano attraversare e solleticano riflessioni indipendentemente dall’autore, o meglio: spesso è così. Per esempio tutto quanto io scrivo e penso intorno alle mie opere spesso non risponde a quanto vedono e pensano chi vi si trovi dinanzi. Le processioni col tempo le ho viste, pensate, e dipinte spinto da una curiosità e possibilità diverse. Oggi mi annoierebbe molto dipingerle come facevo 20 anni fa e, devo confessare che spesso per me è doloroso l’atto del dipingere, intendo qui la sua pratica, una “cammurria”, noia infinita mentre per molti pittori sì, la pratica è fondamentale e il “rito” per loro è una forma di resistenza rispetto all’urgenza di rispondere a una contemporaneità che ti informa di sostenere una postura, una flessibilità di intenti notevoli per combaciare e rispondere ad una urgenza, diciamo così, che possa adeguarsi a mettere perfettamente un mattoncino, come nei Lego, che si inneschi perfettamente uno sull’altro. “I riti sono azioni simboliche”, dice Byung-Chul Han ne la “Scomparsa dei riti. Una topologia del presente”. Se inizialmente le mie processioni erano esposizioni del “corpo morto della pittura”, adesso sono, come accennavo prima, “colate di gioia”. E la pittura è un mezzo, per me, che mi consente di rivedere e procedere dentro un progetto che contiene, o almeno così per me è adesso, la vita intera, anzi della sua estensione – e qui sorrido perché, per un momento, ho esitato a scrivere “estinzione”.
Francesco Lauretta nato a Ispica 1964, vive e lavora a Firenze.
Francesco Lauretta dopo la formazione all’Accademia di Belle Arti di Venezia con Emilio Vedova e una tesi su James Lee Byars si trasferisce a Torino. Qui comincia ad esporre opere monumentali, bianche sculture che rasentano il minimalismo ma evocative di un certo spirito barocco e narrative, olfattive: utilizza petali di sapone verde o petali di rosa nera che deposita su cassetti che destabilizzano elementi riconoscibili, d’uso comune, come un sofà, un piedistallo, quadro. Sperimenta l’installazione, la performance, il video e dal 2003 comincia a lavorare per una ridefinizione della pittura come linguaggio e su quella del pittore come condizione esistenziale, esplorando le tecniche, i processi, gli esiti formali, le deviazioni, i limiti e i possibili fallimenti. Dal 2010 è al lavoro su “I racconti funesti”, una serie di allegorie in cui esercita la scrittura come strumento per la comprensione della sua ricerca. Recentemente ha dato inizio ad un progetto sulla libertà e l’invenzione comprendendo la pittura come fondazione di mondi, immensi e possibili.
Dall’ottobre del 2017 con Luigi Presicce inventa la Scuola di Santa Rosa, libera scuola del disegno, a Firenze. Le più recenti mostre personali, tra le molte in gallerie e spazi istituzionali, sono: “Pasavento” Fenysua, Firenze, “In hora mortis”, Tenuta dello Scompiglio, Vorno, “The Battle” Fondazione Rossini, Briosco MB (2018),“Due volte”, galleria Giovanni Bonelli, Milano, “Inesistenze”, alla galleria Z2o Zanin, Roma (2015), “Una nuova mostra di pittura”, in più sedi storiche a Scicli (2014), “Esercizi di Equilibrio, alla GAM Galleria d’Arte Moderna, Palermo (2013). Tra le molte mostre collettive in Italia e all’estero si ricordano “Walking on the Planet”, Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno (2015), “PPS- Paesaggio e Popolo della Sicilia”, Palazzo Riso a Palermo e Frigoriferi Milanesi a Milano (2011), “Visions in New York City”, Macy Art Gallery, New York (2010), oltre alla partecipazione a progetti speciali realizzati da collettivi di artisti e curatori, tra gli altri Racconto di Venti, Milano (2015), The Wall (archives), Milano (2015), Nuvole, Scicli (2014), Madeinfilandia, Pieve a Presciano, Arezzo (2013), La festa dei vivi (che riflettono sulla morte), Porto San Cesario, Lecce (2013).


Autel, legno laccato, scaglie di sapone verde, cm. 225x140x40, 1991

da Idioti 2017

disegni dell’arca installazione completa

Due volte 2018

idola, olio su tela, cm. 115×210, 1998

installazione ai miei tempi

