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Gabriele Landi: Ciao Sebastiano, che importanza hanno nel tuo lavoro la Geometria e la Poesia?
Sebastiano Dammone Sessa: Ciao Gabriele, la Geometria fa parte del mio lavoro da sempre, me ne servo per delimitare i confini e gli argini entri i quali muovermi, le unità di misura che sommo o sottraggo mi indicano il sentiero da percorrere aiutandomi a creare dei rapporti più o meno armoniosi tra le fasi del mio lavoro; ha a che fare con la costruzione dei valori, una sorta di mappa, di percorso immanente. La poesia invece subentra immediatamente dopo, è la parte irrazionale che trascende da ogni cosa, la cerco per dare la metrica, mi serve per accorgermi delle anomalie, degli imprevisti e per lasciarmi sedurre dai dettagli del mio lavoro ed accettarne le variabili estetiche, la poesia ha bisogno di tempo perchè deve maturare dentro e fuori dal lavoro diventando la conseguenza delle mie azioni.
Gabriele Landi: Queste conseguenze poetiche influiscono su gli sviluppi successivi?
Sebastiano Dammone Sessa: Certo, per fortuna accade ogni volta, ed è sempre una meraviglia ma anche una continua lotta tra quello che sono e quello che vorrei essere. Sarebbe riduttivo pensare che la verità sta banalmente nel mezzo mi piace invece pensare che la coerenza che tanto ricerco rappresenta una conquista ogni volta e che lo stupore alla fine sta solo nel percorso e nella sua contemplazione. Il lavoro è ricerca, partendo dal medium fino ad arrivare alla resa che non può mai essere solo “estetica” e le mappe di cui parlavo prima mi servono per addentrarmi in questa “selva” fornendomi a grandi linee le coordinate di partenza e di arrivo, tutto quello che sta in mezzo e che mi accompagna giustifica ogni mio tentativo di narrazione e diventa una figurazione che serve solo a me e solo in quel dato tempo.
Gabriele Landi: Le mappe di cui parli hanno un risvolto visivo, sono tracce che annoti in qualche modo o è solo un fatto mentale?
Sebastiano Dammone Sessa: Tutto confluisce inevitabilmente in una sorta di sintesi che scaturisce dal concetto di densità come ad esempio nei primissimi lavori denominati Carta su carta del 2007, dove sentivo proprio l’esigenza, attraverso la sovrapposizione di carte apparentemente banali, di ricavare dei solchi più o meno regolari sulla tavola. Queste superfici, generate dal rapporto di prossimità dei vari fogli di carta (materiale a me caro poiché legato alla mia infanzia), mi fecero immediatamente pensare a delle “mappe” e quindi all’idea del viaggio. Successivamente con il ciclo Appunti, oltre alla dominante cromatica a modo suo sempre presente nel lavoro, ho iniziato a sommare e sagomare la materia smussandola sistematicamente e collocandone il risultato nello spazio; dapprima a terra e poi a parete, cercando sempre una disposizione in grado di rigenerarsi all’infinito, variando semplicemente il rapporto di prossimità dei vari elementi e il loro peso cromatico. Un solo elemento spostato avrebbe rimesso in discussione l’intera composizione e generato nuove soluzioni formali più o meno efficaci. Solo da qualche anno, con la serie Tracce, opere costituite di migliaia di chiodi conficcati nella tavola, sto continuando ad affrontare il rapporto di prossimità tra i vari elementi (operazione che suona tristemente attuale per via del distanziamento sociale che le recenti norme sanitarie ci hanno imposto) e la conseguenza cromatica dell’ossidazione del ferro che mi sforzo di tentare di dominare.
Gabriele Landi: Esiste un’idea di trasformazione e divenire costante e continuo in cui mi sembra entrino in gioco molti elementi fra tutti lo spazio che ruolo ha?
Sebastiano Dammone Sessa: Gli ultimi lavori, le Tracce di cui parlavo prima nascono semplicemente da un problema tecnico che con il tempo ho cercato di esasperare. Nella costruzione del telaio ligneo, gli elementi in gioco sono sempre gli stessi: multistrato di pioppo o betulla, colla per “saldare” tra di loro le parti e chiodi per fissare, “appuntare” tra di loro, giusto il tempo di gestirli, i vari elementi che compongono la struttura lignea. Il chiodo però, nonostante venisse ribuzzato e accuratamente stuccato, con il tempo e con il genere di velature e emulsione acquose che applico al supporto, tendeva sistematicamente ad arrugginirsi creando un alone, una sorta di macchia rossastra in grado di attraversare sia la carta che il materiale di riempimento; da lì quindi l’idea di usare ed esasperare attraverso vari acidi questa naturale reazione chimica del metallo, proprio per testimoniare il tempo e per omaggiare a modo mio il colore più significativo dell’antichità ovvero l’ocra rossa derivata dall’ossido di ferro. Lo spazio invece rappresenta in questo caso il silenzio, la pausa, una boccata d’ossigeno, un momento di riposo necessario alla contemplazione di tutto il resto, i vuoti fisici e mentali sono processi di sintesi, sempre funzionali e mi servono per dare respiro all’insieme, evitarmi costrizioni, rappresentano per certi versi anche una via di fuga.
Gabriele Landi: Prima dicevi della carta che ha un suo legame con la tua storia personale puoi parlarne?
Sebastiano Dammone Sessa: Quando ero piccolo, mia madre lavorava in una cartiera/ scatolificio per cui casa era sempre piena di carta, scarti di lavorazione che mi riportava per farmi giocare. A distanza di molti anni, il destino ha voluto che anche la mia compagna lavora con lo stesso materiale occupandosi di pop up e cartotecnica e quindi ancora oggi casa nostra è piena di ritagli di ogni genere, forma e colore.
Gabriele Landi: Che importanza ha per te la fisicità dei tuo lavori? Vedo che sono spessi e che sembrano avere una certa presenza corporale nello spazio.
Sebastiano Dammone Sessa: È vero, uso spesso telai relativamente spessi perché concepisco l’opera in modo tridimensionale sin da subito e a prescindere dalla resa finale. Ho sempre trattato i bordi con la stessa cura del resto della superficie, quasi a voler indicare un’alternativa alla lettura del manufatto, attirando l’attenzione anche altrove. Nel tagliare, nel conficcare i chiodi o nello smussare gli elementi, l’impegno che metto nella costruzione vera e propria del supporto è sicuramente molto importante e i suoni che ne derivano sono più consoni alla scultura che alla pittura. L’opera nasce proprio in quella fase diventando quasi una matrice sulla quale adagiare successivamente le emulsioni o le paste colorate, perché limitarsi a un solo lato quando posso disporne di almeno altri cinque? Un altro aspetto interessante in grado di indicarmi se il lavoro si “salverà” è la sua resa tattile in fase di esecuzione, prima della “chiusura” che rappresenta per me un momento sempre delicato e difficile da approvare.
Gabriele Landi: Si salverà?
Sebastiano Dammone Sessa: Ancora non lo so.
Gabriele Landi: Ti volevo chiedere di parlarmi dei piccoli gironi organici?
Sebastiano Dammone Sessa: I Piccoli gironi organici rappresentano l’evoluzione naturale del ciclo Gironi, ovvero la serie realizzata con carte sovrapposte e poi incise attraverso l’ausilio di speciali compassi dotati di lame per asportare e quindi rivelare/rilevare una parte del contenuto e del processo costruttivo. Nei piccoli gironi organici, mi concedo una parentesi forse ludica ricordandomi della mia infanzia, quando era facile giocare per ore con dei nastri di carta, avvolgendoli, arrotolandoli come delle girelle fino a vederli perfettamente compatti e pronti ad esplodere nel caso avessi allentato la presa.
Oggi il procedimento è sempre lo stesso ma invece che allentare la presa tento di plasmare, accompagnare ogni strato tra le mie mani e come un vasaio modella la creta io gestisco la carta che per me diventa stratificazione sociale, cercando di non annullare l’idea di progressione e di redenzione che il lavoro ti induce ma bloccando in quel momento il tutto con l’ausilio delle emulsioni date a pennello e non a colata per simulare una sorta di smaltatura.
Gabriele Landi: Stratificazioni sociali, puoi spiegare meglio?
Sebastiano Dammone Sessa: Karl Marx diceva che la conflittualità sociale è una conseguenza del conflitto tra sfruttatori e sfruttati, ricchi e poveri, borghesi e proletari. Viviamo in una società che favorisce le diseguaglianze sociali; una donna nata a Kabul non ha gli stessi diritti di una donna nata a Zurigo e questo è un dato di fatto ma riscontrabile solo nella realtà e non nella teoria. Queste caste che prima caratterizzavano solo alcuni popoli a oriente oggi sono diventate consuetudine in tutto il mondo. Le mie carte stratificate, i miei appunti e miei gironi si occupano di riscatto sociale, quello ad esempio di un giovane che sarebbe presto diventato padre costretto ad emigrare con la valigia di cartone perché nel suo meridione non c’erano prospettive, le stesse prospettive che ancora oggi il Sud del mondo non riesce ad immaginare ma vede bruciare.
Gabriele Landi: Possono essere quindi considerati dei ritratti come condizione?
Sebastiano Dammone Sessa: Non necessariamente o meglio, non mi sono mai posto il problema in tal senso ma magari per qualcuno è cosi, io li riconosco piuttosto come cicli temporali.
Gabriele Landi: Anche nei lavori con i chiodi il tempo.ha una sua importanza puoi parlarne?
Sebastiano Dammone Sessa: Sì, le Tracce raccontano il tempo attraverso l’ossidazione dei chiodi, il ferro si corrode con l’ausilio degli agenti atmosferici rivelandosi apparentemente solo in superficie. Il pioppo assorbe insieme alle carte gli umori che derivano da questo sangue; l’esecuzione, scandita dal rumore dei chiodi che conficco manualmente uno ad uno nella tavola mi restituisce una dimensione temporale, un ritmo quasi tribale. La materia deve avere il tempo di maturare, di fermentare anche attraverso le emulsioni che come per magia esasperano la superficie fissandola in un altro tempo. A quel punto, girando l’opera osservo la conseguenza delle mie azioni sul retro del telaio. Vedo tracce di transumanza, esodi fatti di sofferenza, legno lacerato, sangue e sudore.
Gabriele Landi: Quello che racconti sembra un rito religioso esiste nel tuo lavoro una tensione di questo tipo, un’attenzione alla spiritualità da raggiungere attraverso un processo di “incarnazione” nella materia?
Sebastiano Dammone Sessa: Credo che tutta l’arte abbia a che fare con la spiritualità, una sorta di tentativo di elevarsi a qualcosa di superiore. Un tentativo che con fatica, fortuna e abnegazione a volte riesce, altre volte invece no, fallisce miseramente. La domanda vera è quindi capire di quanto consenso abbiamo bisogno per andare avanti sapendo che per creare devi rinunciare ogni volta a un pezzo di te.
Sebastiano Dammone Sessa è nato a Montreux, Svizzera, nel 1981. Operando nel campo della ricerca e della sperimentazione visiva, attraverso l’uso della pittura, della scultura e delle installazioni, ha elaborato un personale percorso d’indagine incentrato in prevalenza sulla stratificazione di materiali, orientato allo studio della luce e del colore senza riferimento alla dimensione oggettiva del reale. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive istituzionali tra cui Tracce, a cura di Chiara Ronchini, Crac Gallery, Terni; Traiettorie, a cura di Nikola Cernetic, Luce Gallery, Torino; Moduli, a cura di Giancarlo Chielli, Palazzo della Corte, Noci (Bari); Mobili equilibri a cura di Teodolinda Coltellaro, MARCA, Museo della Arti di Catanzaro; Form & Objects a cura di Franko B, Palazzo Lucarini Contemporary, Trevi (PG); Talent Prize a cura di Inside Art, Museo Pietro Canonica a Villa Borghese, Roma, Seguendo il Cammino di Marco Polo, Henlu Art Gallery, Hangzhou, China; Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia. Le sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero. Attualmente è docente di Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Vive e lavora tra l’Aquila e Catanzaro.







