Intervista a Manlio Onorato

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Gabriele Landi: Ciao Manlio, quando è iniziato il tuo percorso ?

Manlio Onorato: Come tanti scarabocchiavo sin da piccolo. Qualche passo avanti lo feci cominciando a disegnare tantissimo, per altro quasi mai dal vero; abbozzavo le figure con un tratto molto essenziale e il gusto del disegno m’è rimasto appiccicato, spesso mi diverto ancora a schizzare qualcosa. Nel ’73 (non avevo ancora compiuti 23 anni) allestii la mia prima personale , di grafica naturalmente, con alcune tempere decisamente immature, nelle quali però -retrospettivamente- si può già scorgere l’interesse molto marcato per la luce, i cieli dei miei paesaggi erano dipinti con molto bianco a sfumare gli azzurri di base. Poi, dopo qualche anno, alcune mostre e una pittura diventata più cupa, progressivamente mi allontanai da ogni velleità artistica, pensavo che ormai tutto sarebbe ormai rimasto confinato ad un semplice hobby. Attraversai anche un periodo difficile, segnato da un lutto familiare…Ripresi però a dipingere nell’autunno dell’83, ricominciando da capo, dagli elementi fondamentali della pittura, tornai ad esporre l’anno seguente…e da allora non ho più smesso.

Gabriele Landi: A quali artisti guardavi all’epoca?

Manlio Onorato: Quand’ero ragazzo guardavo  soprattutto a Morandi (che tuttora è un artista che amo particolarmente) e a certo Carrà; come disegnatore all’espressionismo in genere, ma per così dire temperato nella fluidità del segno. Amavo molto anche Hopper e la figurazione in genere, ma ahimé avrei avuto bisogno di una maggiore padronanza tecnica per ottenere certe atmosfere sospese. Quando tornai alla pittura, nell’83, mi tornò utile il ricordo della mostra “Fare pittura”, curata da Bruno Passamani, Vittorio Fagone e Aldo Passoni, vista al Museo di Bassano del Grappa una decina d’anni prima. Mi preme sottolineare che il mio interesse per l’arte è sempre stato di ampio raggio, esteso anche a tendenze ed autori molto lontani dalla mia concreta pratica pittorica. Dopo una pausa di alcuni anni, volendo ricominciare da capo e riflettere sulle ragioni del mio operare, mi sembrò naturale rivolgere l’attenzione alla pittura analitica, anche se nel frattempo era diventata la Transavanguardia la moda dominante. Della mostra bassanese, tuttora citata in molti saggi come particolarmente rilevante per la diffusione di tale approccio riflessivo alla pittura, mi interessavano allora soprattutto Valentino Vago, peraltro molto lirico e alla cui sensibilità cromatica mi sentivo molto vicino, e Claudio Olivieri per una certa idea del dipingere: ebbi poi occasione di conoscerli personalmente, diventandone amico, ci hanno purtroppo lasciato entrambi. Conobbi poi anche gli altri, Guarneri, Matino, Patelli, Verna, tranne Griffa e Battaglia (quest’ultimo mi intriga particolarmente negli ultimi anni, mi sarebbe piaciuto conoscerlo ma ormai se n’è andato anche lui, da molti anni ormai). In sintesi è sostanzialmente quello il mio contesto di riferimento, ancor oggi; come del resto anche per molti miei coetanei o di poco più giovani (ad esempio Gianni Pellegrini e Italo Bressan) che hanno sempre continuato a credere nella pittura. Direi una pittura che ha come soggetto la pittura stessa; ma naturalmente, come dicevo prima, amo anche artisti lontani, almeno apparentemente, dal mio mondo: ad esempio mi coinvolge moltissimo Giacometti. In fondo questa pluralità di sguardi mi stimola: in fondo, non trovi che certi miei quadri potrebbero ricordare certi paesaggi particolarmente essenziali di Guccione nei quali si perde il confine di mare e cielo? 

Gabriele Landi: Che idea hai dello spazio?

Manlio Onorato: La pittura si sviluppa naturalmente sulla superficie, ma ha spesso sentito l’esigenza di simulare volume e profondità con vari mezzi tra i quali, ad esempio la prospettiva. La messa in discussione dell’idea di mimesi sino all’astrazione più radicale ha naturalmente reso meno pressante questa esigenza, arrivando anzi a teorizzare la flatness (dalll’inglese flat, in italiano piatto), il principio cioè che la pittura si dovesse interamente risolvere in superficie, quasi fosse un limite invalicabile. Ma in realtà molti artisti pur optando senza compromessi per una pittura aniconica non hanno rinunciato ad alludere ad uno spazio non riducibile alle due dimensioni, ad esempio con i buchi e tagli di Fontana per andare oltre la superficie verso l’infinito o Castellani e Bonalumi con le estrofessioni che letteralmente escono dalla superficie per protendersi verso l’osservatore. Senza entrare in troppi dettagli a me interessa quella che potremmo definire la “profondità della superficie”. Mi spiegherò con un semplice esempio: in certe giornate particolarmente limpide il cielo appare di un azzurro uniforme o comunque variabile con continuità, eppure lo avvertiamo come profondo, l’immagine stessa della lontananza. Io cerco di rendere questo effetto con la stesura di numerosi strati di colori spesso diversi, ricorrendo a trasparenze e gradienti luminosi. Faccio un altro esempio, desunto dalla storia dell’arte; se guardi certi piccoli deliziosi quadri fiamminghi nei quali vengono raffigurati in primo piano con dovizia di particolari i committenti e oggetti familiari, spesso si aprono sullo sfondo paesaggi con cieli luminosissimi. Ecco, è come se io cercassi di portare in primo piano ciò che è sullo sfondo facendone il soggetto stesso della pittura, che ha comunque una storia; c’è un “sentimento del colore” (a me piace chiamarlo così) che è della tradizione italiana, che può convivere con la più radicale astrazione. Esemplare in tal senso è l’esempio di Ettore Spalletti

Gabriele Landi: E il tempo?

Manlio Onorato: Empiricamente e il tempo è per me -in riferimento alla mia attività di pittore- innanzitutto memoria. Mi capita abbastanza spesso di usare un colore piuttosto che un altro o di alludere a una qualche forma senza sapere perché e poi, ad opera ultimata, ricordare lo stimolo visivo al quale ho attinto. Hai presente quando cerchiamo invano di ricordare qualcosa e poi -di colpo- senza preavviso, talvolta dopo giorni, in modo apparentemente casuale quel nome, quel volto, quel fatto si rivelano a noi? Senza che ce ne rendiamo conto si sono attivate innumerevoli associazioni mentali, come se avessimo sfogliato uno schedario e poi ciò che cercavamo ci appare improvvisamente con estrema chiarezza. Credo che qualcosa di simile avvenga per gli stimoli visivi e mi sembra che questo dia un senso a ciò che abbiamo realizzato; abbiamo rielaborato un’esperienza visiva e le abbiamo dato nuova forma e -metaforicamente- nuova vita. Ma il tempo, pragmaticamente, è anche quello della realizzazione dell’opera o più esattamente del “fare pittura” (per tornare al titolo della mostra prima citata), una pratica cioè che si concretizza nei singoli manufatti. Infine, forse, il tempo è per me un continuo divenire, talvolta impercettibile, un continuo trascorrere. Ricordo di aver visto anni fa uno splendido quadro di Joaquin Sorolla, un gruppo di persone sulla spiaggia; mi capitò di pensare a certe pagine di Proust e a quella che definirei “l’eternità di un istante”, una sorta di eterno presente; l’arte è capace di far questo, magari ci riuscissi! Continuo però a tentare

Gabriele Landi: Muovendo dallo spazio verso la pittura, come procedi tecnicamente parlando?

Manlio Onorato: Parto da una tinteggiatura di fondo, ad acrilico, e poi applico numerosi strati di colori spesso diversi; questo mi consente di modulare i passaggi di tono e ottenere quella “profondità della superficie” di cui prima parlavo. Uso impasti con un’alta percentuale di bianco di titanio, che spesso aumenta ad ogni velatura. Ma è processo tutt’altro che lineare, caratterizzato da una continua messa a punta dei toni, cancellature e rifacimenti; mi capita abbastanza spesso di ridipingere completamente un quadro. Non programmo nulla, lascio che sia la pittura stessa a suggerirmi come procedere. Questa è una differenza rispetto agli analitici più canonici, alcuni dei quali amavano definire tutte le fasi del processo di realizzazione. Naturalmente uso anche altre tecniche, ad esempio i pastelli che mi piacciono soprattutto per la loro duttilità e luminosità. 

Gabriele Landi: C’è quindi un piacere del colore e della pittura ed anche una ricerca di tensione nei rapporti fra i vari passaggi che costituiscono l’ossatura del tuo fare?

Manlio Onorato: Certo, ma il piacere del colore e della pittura è talvolta insidioso; c’è il rischio di accontentarsi di un immediato appagamento visivo. Bisogna invece mettersi continuamente in discussione; personalmente diffido dell’eccessiva facilità. Certamente talvolta si giunge più rapidamente al risultato, ma guai se avviene troppo spesso. Permettimi poi di aggiungere una considerazione molto personale; io vivo talvolta in modo lacerante la contraddizione tra l’inconscio e la mia tendenza a razionalizzare. Forse mi sbaglio, ma ho l’impressione che nella pittura si componga in qualche modo questa contraddizione, pur non annullandosi, in una dialettica incessante; amo definire la pittura il luogo paradossale della mia impossibile unità. Non so se questo però si avverta nelle opere, in cui molti colgono una grande serenità; forse, ma a patto di concepirla come aspirazione, come motore del mio fare pittura. In un celebre saggio scritto da Wittkower insieme alla moglie gli artisti, grandi o piccoli che siano, sono “nati sotto Saturno”, e quindi contrassegnati dalle stimmate della malinconia.

Gabriele Landi: Io personalmente, da pittore a pittore, la sento molto questa tensione nel tuo lavoro. Il fatto stesso che tu proceda per sovrapposizioni di strati genera di per sé questo stato di intensità che non è solo uno fatto cromatico, ma mi sembra nutrirsi anche di altro, come se il colore successivo tendesse a “soffocare” quello precedente.

É corretto ?

Manlio Onorato: In un certo senso sì, naturalmente le successive stesure di colore sono più o meno coprenti, opero con cancellature e trasparenze. Ma, detto così, la mia potrebbe sembrare una pittura umorale, invece certo sempre un’armonia interna all’opera…Ma qui si aprirebbe un discorso molto lungo che non mi sento di affrontare ora. Mi limiterò a dire che sono alla ricerca di un’armonia ancora possibile in un’epoca che sembra costantemente negarla. Se poi ci riesca o meno non sta a me dirlo…

Nato nel 1951 a Castel Morrone, in provincia di Caserta, Manlio Onorato vive e lavora a Lonigo (VI). Allestisce la prima mostra personale nel 1973 per poi interrompere quasi del tutto l’attività negli anni successivi. Nel 1984 ritorna ad esporre in numerose mostre personali collettive in Italia e all’estero, tra le quali nel 1996 “Colloqui in forma di pittura” con V. Matino, C. Nangeroni, C. Olivieri, M. Raciti, F. Ruaro e V. Vago a Lonigo negli spazi di Palazzo Pisani a cura di Giuliano Menato, nel 2004-2005 “La luce oltre la forma” alla galleria civica Ai Molini di Portogruaro, alla galleria Peccolo di Livorno, alla galleria Folini di Chiasso (Svizzera), al Museo Casabianca di Malo (VI) e all’Arte Studio Clocchiatti di Udine, con A. Bonoli, M. De Luca, D. D’Oora e A. Morandi a cura di Diego Collovini, nel 2012 la mostra personale a Francoforte sul Meno (Germania) alla Frankfurter Westend galerie e nel 2013 la mostra antologica a Lonigo negli  spazi di Palazzo Pisani a cura di Carla Chiara Frigo.

Hanno inoltre scritto di lui, tra gli altri, Bruno Bandini, Giorgio Bonomi, Manlio Brusatin, Diego Collovini, Dino Formaggio, Dino Marangon, Giuliano Menato, Roberto Sanesi, Tommaso Trini.