Intervista a Silvia Vendramel

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(Questa conversazione è stata pubblicata la prima volta nel settembre del 2019)

Gabriele Landi: Ciao Silvia, ultimamente vedo spesso, che sulle tue pagine social, pubblichi spesso delle fotografie di frammenti di paesaggi, che valore attribuisci a queste immagini?

Silvia Vendramel: Rispetto all’uso che faccio del web, a parte il sito dove pubblico regolarmente i miei lavori (www.silviavendramel.com), uso fb o Instagram come una specie di album di appunti. 

Le foto che faccio sono quasi sempre particolari di paesaggi urbani: dettagli di costruzioni, accrocchi e strani accostamenti. Mi piace osservare le soluzioni che l’uomo inventa adattandosi al proprio ambiente, gli strati e le tracce che si sovrappongono, le incongruenze tra i materiali. Mi incuriosiscono le recinzioni che trovo spesso comiche per il modo in cui le persone curano la proprietà privata rispetto allo spazio pubblico, sono costruzioni che fanno resistenza ostentando una certa eleganza e questo mi diverte quando non mi deprime.

In generale, le foto che faccio sono frutto dei mei spostamenti, delle esperienze e degli stati d’animo che vivo, una specie di diario insomma.

Gabriele Landi: La poetica del frammento e la sua successiva rielaborazione è uno degli aspetti che più ritorna nel tuo lavoro. Che valore attribuisci a questi oggetti che spesso hanno già un vissuto?

Silvia Vendramel: Le ragioni per le quali parto da frammenti esistenti per poi rielaborarli sono varie e alcune sicuramente non del tutto consapevoli, ciononostante penso di poter dire che parte di questo mio interesse sia legato al non volere aggiungere cose ad un mondo già saturo e alla consapevolezza di essere parte di un eterno fluire al quale attingere prelevando elementi che posseggono già una propria memoria.

Da un punto di vista più personale è nella mia natura soffermarmi sui dettagli, mi cade l’occhio sulle anomalie, sulle piccole cose e quindi sui frammenti. Molto spesso è attraverso un dettaglio che cogliamo l’essenza di un sistema più ampio e originario. 

Il mio procedere è quindi fatto di incontri: una superficie, una frattura, un segno da cui mi sento attratta perché ne riconosco il potenziale. Non avendo mai prediletto una tecnica o un solo materiale, il mio lavoro mi mette continuamente di fronte a nuove problematiche proprio perché parto da elementi eterogenei e ogni volta mi trovo a risolvere questioni tecniche mai affrontate prima.

Una volta individuato il soggetto, il lavoro consiste nel come farlo esistere fuori dal suo contesto, niente di nuovo vista la storia del ‘900, ma il lavoro continua ad essere quello di spostare, sorreggere, unire o separare. Tutto ciò è appassionante ed è simile al parlare lingue diverse, è una pratica di ascolto ancor prima che di osservazione. (Foto n°1)

Gabriele Landi: Puoi parlarmi dei Soffi?

Silvia Vendramel: Soffi è il titolo di una serie di lavori in vetro soffiato all’interno di strutture metalliche che ho iniziato a realizzare nel 2012 e che ho portato avanti per circa due anni.

Tutto è iniziato dal desiderio di intervenire su un oggetto appartenuto alla mia famiglia. In quel periodo stavo cercando un sistema diverso di lavorare, provavo l’esigenza di cambiare, mi sentivo frustrata da una modalità che non mi soddisfaceva più, soffrivo per una certa distanza che io stessa mettevo tra me e il lavoro, tutto quello che facevo mi risultava gelido o confuso. Per questo motivo ho iniziato a servirmi di elementi che avevano per me una forte valenza affettiva e questo modo così intenso è poi rimasto una costante nel mio posizionarmi di fronte alle cose.

Il primo Soffio nasceva dunque in un momento particolare e in seguito, affascinata da un materiale così sensuale e fragile, ho iniziato a cercare elementi in metallo simili a quello da cui ero partita. 

Quelli che scelgo sono oggetti decorativi che spesso abitano le case senza altra funzione che quella di riempire un vuoto, oggetti inutili, cosiddetti svuota tasche che taglio a pezzi e poi saldo prima di passare alla soffiatura.

Di questi lavori mi interessa la costrizione che il metallo imprime al vetro, si tratta di intervenire sul dialogo tra i due materiali, di osservarne le reazioni, di fondere due elementi separati. Tutto ciò ha a che vedere con il senso di appartenenza e le sue contraddizioni.

Se la preparazione del pezzo richiede tempo e competenze specifiche, la vera e propria soffiatura all’interno della gabbia metallica è molto veloce e pertanto non è possibile prevedere quale sarà il risultato finale. Forzando il pezzo fino al limite del collasso, il movimento è veloce, soffocante, tutto avviene in quel soffio dove un elemento spinge verso l’altro inglobandolo, per questo il titolo corrisponde ad un gesto unico, irreversibile. 

Il fatto di non poter prevedere ne la forma ne la posizione che la scultura troverà una volta raffreddata, è per me un modo di mettere da parte pensiero e volontà lasciando che siano i materiali stessi a prendere corpo nell’incontro. (Foto n°2, 3 e 4).

Visto che siamo su una piattaforma pubblica, ci tengo a precisare una vicenda che mi sta molto a cuore: le opere in vetro di Jean Luc Moulène, esposte quest’anno alla Biennale di Venezia, ma prima ancora al Centre Pompidou, alla Villa Medici, eccetera.

Nel 2014 ho fatto domanda per una residenza presso il centro Cirva di Marsiglia, specializzato nella lavorazione del vetro. Non sono stata presa ma il mio dossier documentava due anni di ricerca intorno a questa serie (vetro soffiato in strutture di metallo).

Dal 2012 Jean Luc Moulène collaborava con Cirva realizzando una serie intitolata Nœuds soufflés, poco dopo che ho spedito la mia candidatura (dossier+immagini), Moulène ha iniziato a realizzare sculture soffiate all’interno di gabbie metalliche estremamente simili alle mie.

Questa vicenda mi risulta dura da digerire e mi fa piacere renderla pubblica.

Gabriele Landi: E’ l’empatia a guidarti nella scelta degli oggetti che usi nel tuo lavoro?

Silvia Vendramel: Non saprei, non sempre la scelta nasce per empatia, spesso è il progetto stesso ad imporre la ricerca del medium adeguato.

Ogni materiale possiede una propria natura specifica, il linguaggio che utilizzo passa attraverso l’analisi di questi aspetti. Ci sono materiali malleabili, altri più solidi, ci sono tempi insiti in ognuno di essi e poi ci sono i miei tempi, spesso lenti, dove faccio amicizia con le cose, provo, tento e sperimento seguendo quella corda invisibile che muove ogni artista. Questa tensione è un amalgama fatto di necessità personali e di riferimenti storici che procedono e dialogano costantemente modificandosi nel tempo.

La sintesi è sicuramente un’altra componente essenziale del linguaggio, procedo attraverso una scrematura cercando di arrivare al nocciolo della questione. 

Il punto è fare in modo che i vari passaggi trovino alla fine una loro ragione d’essere, un’ aderenza del risultato a quella pulsione di cui sopra.

Senza dubbio gli elementi che scelgo sono frutto di una stratificazioni di esperienze e influenze che nel tempo si sono accumulate e che diventano strumenti del linguaggio.

Gabriele Landi: Come nasce il lavoro che hai presentato al Premio Lissone?

Silvia Vendramel: Da circa dieci anni, cerco di eliminare il superfluo, durante gli anni precedenti, accumulavo, raccattavo tutto il raccattabile, gli studi che ho avuto erano zeppi di cose piccole e grandi. Credo di poter contare più di dieci traslochi ed alcuni in paesi diversi. In tutti questi spostamenti per forza di cose è maturata l’esigenza di arrivare all’essenziale, ma è stata un processo lento, una parte di me era cosciente del fatto che questa accumulazione mi teneva legata al passato ma i legami non si spazzano via, ci si separa gradualmente fino a riuscire a distinguere tra ciò che è zavorra e ciò che invece merita di essere vissuto, esperito.

Un giorno andavo alla discarica tutta contenta di poter eliminare materiali e fare spazio e sono tornata indietro con la macchina più piena di prima!

Spesso la mattina presto c’è una luce dolce che permette una visione netta delle cose. Quel giorno, aprendo il portabagagli per scaricare, fui attratta da una luce particolare che cadeva su una superficie bianca, sinuosa. Era una vasca da bagno jacuzzi, fortunatamente non in ghisa come la precedente che avevo usato per un pezzo intitolato Di qualcosa in fondo, per qualcosa il coperchio (Foto n°5). Non sapevo ancora come avrei proceduto ma sapevo cosa volevo farne, volevo mettere in luce quella particolare visione che mi aveva colpita. Le vasche da bagno vengono progettate come spazi per accogliere il corpo, come calchi, spazi al negativo e questo le rende già di per se significative.

In seguito ho proceduto segandola e lavorando sulle sponde esterne affinché perdesse la connotazione di vasca e mantenesse quel movimento così bello. Volevo apparisse come una memoria e perciò ho lavorato sezionandola come fosse un grande frammento che porta in se la traccia di uno spazio-corpo. Così è nato Big fragment (Bath). (Foto n°6)

Gabriele Landi: Ci sono altri tuoi lavori in cui il corpo in altri modi è protagonista, alcuni li hai esposti nella recente mostra a Pisa presso la Galleria Paesaggi puoi parlarne?

Silvia Vendramel: Il corpo, il corpo! Il corpo torna sempre in ogni modo, in tanti modi, non tanto come soggetto, ma come strumento. Il corpo è per me prima di tutto unità di misura. 

La relazione che instauro con i luoghi in cui intervengo è strettamente legata a quella del corpo come se questo fosse un filtro tra me e il circostante.

L’attenzione che poniamo di fronte ad una scultura varia a seconda delle sue dimensioni.

Confrontati ad un pezzo di medie dimensioni saremo portati ad avvicinarci, ad instaurare una relazione intima, mentre di fronte ad una presenza di dimensioni pari o maggiori al nostro corpo, avremo uno sguardo diverso, un confronto d’altro tipo.

Questi parametri sono alla base della percezione della scultura.

La scultura in quanto tale genera intorno a se spostamenti, andirivieni, giri intorno, tutto ciò suscita nel fruitore movimenti inusuali che implicano una partecipazione fisica, questo indurre alla scoperta e all’osservazione attraverso il movimento stimola altri sensi che la sola visione non permette. 

Ciò che più mi affascina è la possibilità di far rallentare il ritmo del fruire come se l’arte fosse uno degli strumenti di resistenza al puro consumo.

Da tempo costruisco pezzi che posso gestire da sola, pesi alla portata delle mie braccia, opere quasi sempre smontabili, che posso caricare in macchina.

Questa forma di autonomia unita alla magia del poter rallentare, sono per me criteri di azione.

Per quanto riguarda invece la mostra Slittamenti e margini insieme a Beatrice Meoni tenutasi presso la galleria Passaggi Arte Contemporanea di Pisa, il tema da noi scelto era la caduta, ma questa è ancora un’altra storia.

Gabriele Landi: Quando parli “di magia del poter rallentare” alludi al tempo o ad altro?

Silvia Vendramel: Penso al tempo della contemplazione che è molto particolare perché è un tempo per osservare ma anche per riflettere, immaginare, emozionare, è un tempo sospeso, in questo senso è magico. Le mostre offrono l’opportunità di recarsi in un determinato luogo, di osservare, di passare attraverso le opere, di avvicinarsi e questo oggi è un privilegio visto che tutto è visibile virtualmente, da lontano, senza toccare, senza farne alcuna esperienza.

Gabriele Landi: Il tuo lavoro si confronta spesso con la rivitalizzazione di oggetti che hanno già un loro vissuto questo loro passato ha per te una qualche importanza? (penso ai lavori della serie La Torre)

Silvia Vendramel: Si certo, tutti i miei lavori partono da cose già esistenti, elementi che trovo significativi e a cui cerco di dare voce.

Nella serie La Torre (http://www.silviavendramel.com/) mi sono servita di fustelle per costruire cartoni da imballaggio. Ne ho trovate in grande quantità, ero interessata alle linee incastonate nel legno come disegni geometrici fatti di tratti sottili, taglienti. 

Di questi pannelli mi seduce il potenziale, il loro essere forme bidimensionali, progettate per essere sviluppate in tre dimensioni.

Ormai in disuso, pronte per lo smaltimento, le fustelle trovate erano rovinate, macchiate, arrugginite, così ho proceduto  carteggiandole, sperando che le tracce del tempo si attutissero perché mi interessavano i soggetti grafici più che le tracce dell’usura, ma non è stato possibile, il legno era ormai impregnato e quindi ho deciso di scontornarne le silhouettes con della pittura bianca per restituire quel carattere totemico che mi aveva colpita. 

Il titolo La Torre, prende spunto dal nome della ditta produttrice dei cartoni. La Torre vorrebbe essere tale ma in realtà è un dispiegamento di forme un po buffe e un po stanche, ripetute in sequenza, in attesa. (Foto n°7 e 8).

Silvia Vendramel (Treviso, 1972), si diploma presso la Villa Arson di Nizza (Francia) nel 1996, dal ’97 al 2003 vive a Madrid per poi trasferirsi in Toscana, attualmente vive e lavora tra Nizza e la Toscana. 

Il suo lavoro si basa sull’assemblare manufatti o materiali incontrati incorporando un ampio raggio di elementi di tipo domestico, industriale e naturale. Il tema della relazione, esplorato tramite il dialogo tra materiali difficilmente compatibili, il peso della memoria reso tangibile attraverso l’uso di materiali autobiografici e il carattere estraniante della materia, sono alcuni aspetti che caratterizzano un’ esperienza della scultura intesa come testimonianza intima del divenire.

Alcune esperienze artistiche sono state: la residenza presso il centro EstNordEst in Québec, Canada nel 2005, il Premio NY assegnatole nel 2007 e alcune commissioni realizzate in spazi pubblici e privati ad Hong Kong e Shanghai (Cina).

Alcune delle ultime mostre sono state: Premio Lissone 2018, MAC, Contemporary Art Museum, Lissone, (Premio Stima); Slittamenti e margini, Galleria Passaggi Arte Contemporanea, 2018; La dea ignota, concept Gasparelli Arte Contemporanea, Fano, PU, 2018; AAVV Del tempo lineare e del tempo ciclico, a cura di C. Camoni, CAP, Carrara, 2018; One shot, con G. Caravaggio e A. Gianfreda, Villa Contemporanea, Monza, 2017; Lunedi o martedi, residenza presso GAFFdabasso con B. Meoni, Milano, 2018; Petit salon, a cura di Fabio Carnaghi, Mars, Milano,2017; Al tempo stesso, Galleria Tekè Tabularasa, Carrara, 2017; Fragile come una scultura solido come un quadro, a cura di Alberto Zanchetta, Villa Contemporanea, Monza, 2016; L’attenzione è tessuto novissimo, a cura di Ilaria Mariotti, Villa Pacchiani, S.Croce sull’Arno (PI),2016; Neve. Sole. Ti seguo tempo, museo MAGra (PR), 2016; Paper Weight, residenza Dolomiti Contemporanee, Ex Cartiera di Vas (BL), 2015.

Silvia Vendramel, Carrara- La sculpture, 1997, gomma siliconica e metallo, cm 30x18x16 – Foto Alessandro Paolini
Silvia Vendramel