Intervista a Concetta Modica

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Gabriele Landi: Ciao Concetta esiste nel tuo lavoro un’idea di cartografia i cui toponimi sono i nomi delle materie con cui di volta in volta ti confronti nella pratica quotidiana del lavoro?

Concetta Modica: La geografia ricorre speso nei miei lavori, più che altro in forma di paesaggio. Mi piace pensare a degli archetipi di opere che non sono mutati nel tempo: i paesaggi, i ritratti, le nature morte, i fiori. I vasi di fiori hanno rivoluzionato la storia dell’arte, le cose semplici sono le più difficili e le più affilate. Una carta geografica ricamata con la lana della coperta di mia nonna sfilata e distribuita ad artisti e utilizzata per realizzare opere. Le bandierine segnano oggi i luoghi dove la coperta si trova, disperdendosi e allo stesso tempo, moltiplicandosi. Segnano dei luoghi, delle opere, delle persone, e la pratica artistica crea legami e relazioni. Sicuramente si creano toponimi ma riguardano più un aspetto intimo ed emotivo che non le opere finali e il fare arte.

Gabriele Landi: Oltre a quella del comune materiale di partenza che relazioni si creano fra le opere che vengono realizzate con questa lana? Hai poi in mente di riunirle o vivranno la condizione della “diaspora”?

Concetta Modica: In effetti le mie opere vivono la condizione della diaspora. Ho pochi lavori con me, alla fine è come se fossero autonomi e prendessero strade inedite e senza controllo. A volte si riuniscono ma a volte anche mi dimentico delle posizioni e dei viaggi. In genere un’opera nuova per me parte sempre da quella precedente con un nesso che non sempre è evidente. Una specie di staffetta. Al di la del progetto della coperta che è durato circa 10 anni e si è concluso da un po’, ogni lavoro è un anello della stessa collana, anche se gli anelli non si somigliano continuano un discorso in divenire. Ultimamente il discorso sta andando verso i temi del sacro perché mi interessa come iconografia e perché il sacro oggi mi sembra un tema epico che si può affrontare sia da atei che da cristiani, e si presta come buon pretesto per iniziare una scultura.

Gabriele Landi: Concetta prima di andare avanti ti volevo chiedere di parlare di un’altro lavoro dove la dimensione della collaborazione, questa volta inconsapevole, emerge “Quel che resta di un’anno di pittura non mio” ?

Concetta Modica: Più che di una collaborazione “Quel che resta di un anno di pittura non mia” coincide con l’inizio di un lavoro regolare e retribuito come colorista presso un atelier artistico. Il grande lavoro fatto dai panni utilizzati per pulire o scaricare il pennello mi sembravano il territorio di libertà personale dentro la preparazione di un lavoro non mio. Stratificazione di tempo e pensieri che invece riguardano mie opere in preparazione che aspettavo di incontrare in studio. L’estetica della casualità e anche della ripetizione di gesti dati dalla esecuzione di un modello, il contrario del mio lavoro di scultura. Mi interessa la confluenza di cose diverse dall’arte nell’opera. Poi il concetto di quel che resta, titolo ricorrente che riassume quello che per me è arte, quello che salvo, quel che resta nel vaglio, quel che resta perché lotta, quel che resta perché resiste, quel che resta nel tempo che è fatto di tempo.

Gabriele Landi: Quando parli del tuo interesse per l’ iconografia del sacro, lo fai facendo riferimento alla storia dell’arte?

Concetta Modica: Non necessariamente alla storia dell’arte. Anche in riferimento a un concetto di statuaria popolare, artigianale, di campagna e anche a storie e simboli che magari non sono passati nei quadri degli artisti. Anzi mi interessa di più che non ci sia già un’immagine conosciuta o esplorata. Ho iniziato appendendo una aureola a un chiodo in un tempo di sospensione e intermittenza del sacro.

La tua scelta di lavorare in scultura con la ceramica ha un qualche legame con quello di cui mi hai appena parlato?

Gabriele Landi: La tua scelta di lavorare in scultura con la ceramica ha un qualche legame con quello di cui mi hai appena parlato?

Concetta Modica: Sicuramente, la ceramica porta con se il concetto di trasformazione e un passaggio epico dal fuoco che poi rimane nel manufatto finale. Mi trasmette una sintesi tra pittura scultura e tante altre cose tipo: colto e popolare, artigiano e artistico, manuale e seriale. Contiene un grande senso dell’imprevisto e puoi decidere di non controllare il risultato finale come faccio io. L’opera quindi diventa per me un soggetto da incontrare senza conoscerlo del tutto

Gabriele Landi: Vi sono poi dei forti legami con la Sicilia come il lavoro su Orlando puoi parlarne?

Concetta Modica: La Sicilia non c’entra, Orlando e i pupi sono internazionali, universali come lo è la fragilità, la pazzia il desiderio, la ricerca del gesto eroico e dell’amore. L’impossibilità di controllare il proprio destino la propria vita. Il mio Orlando va in frantumi, si rompe è di un materiale che non si usa per costruire una marionetta è di ceramica appunto. Ma i cocci sono anche qui, “quel che resta” di qualcosa e i cocci si raccolgono, proprio come quando qualcosa va storto, e si ricompongono in nuove immagini.

Gabriele Landi: Questo sembra sottendere un aspetto performativo. Hai mai fatto delle performance?

Concetta Modica: Sì diverse, mio malgrado, è successo, anche se non fanno parte della mia cifra. Le azioni sono state sempre funzionali a delle sculture, sono state il modo per vivere una scultura, in certi casi per metterla al mondo. Un modo di mettere in relazione elementi talvolta lontani tra di loro, oppure altri artisti con il mio lavoro. Ma sono troppo faticose e imprevedibili, non sono così maniacale per controllare tutto, non sono così rigorosa a volte mi sento anche un po’ cialtrona, distratta, penso troppe cose insieme e faccio confusione, mi dimentico le cose. E questi tratti caratteriali quando ci sono tanti elementi di cui tenere conto non aiutano. Diventa molto stancante, e io voglio divertirmi.

Gabriele Landi: Ti volevo chiedere di parlare di un lavoro che trovo molto bello “In pasto al serpente” del 2015?

Concetta Modica: Ecco proprio uno di quegli esempi di lavoro collegato a uno precedente, come ti dicevo, in questo caso si parte solo dal titolo. Il lavoro precedente anche più di uno si chiamavano “in pasto al presente” cambiando alcune lettere diventava un serpente che mi dava l’idea di un presente che fagocita tutto, passato prossimo e cose vicine a lui, e quindi ho fatto una scultura concatenata a un libro che si avvinghia alla ceramica formando una sorta di tana per un serpente mescolando all’interno del libro un lavoro fotografico in cui i buchi sono anche buchi di foglie mangiate dai vermi e quindi un gioco di rimandi visivi che riporta alla bellezza del difetto, dell’imperfezione e tutto ciò ha sempre a che fare con un’epica del tempo che non è clemente con nessuno e va via senza salutare, vuole essere eroico, distinguersi, mangia le cose, consumandole creando però un aspetto formale drammatico, interessante. Il tempo mi fa anche cambiare idea sulle cose, sui lavori e proprio in questi giorni strani di virus, silenzio, fragilità, rielaborazione del tempo e dello spazio, pensavo che ci sono dei lavori che voglio cancellare, eliminare, che non riconosco più come opere. Come si lavora a nuove opere e nuovi progetti si lavora anche per gettare nell’ oblio cose che non si vuole restino. In un tempo in cui non ci è dato di dimenticare, in cui i nostri passaggi vengono segnati sul web, vorrei fare un catalogo di opere da dimenticare, per vedere bene “quel che resta”.

Gabriele Landi: Tal volta il termine epico viene usato per indicare una poesia di carattere oggettivo e narrativo. Questa tua idea di catalogare le opere da dimenticare può essere intesa come un’impresa epica?

Concetta Modica: Credo di si. Penso sia un gesto difficile cancellare qualcosa che si è fatto in passato e a cui si sono dedicate energie e pensiero. Ritornare sui propri passi, ammettere un errore forse in questo nostro tempo non dico sia un gesto epico ma risulta difficile. Anche in questa vicenda del corona virus penso che la percezione di ciascuno di noi è stata molto diversa, la comunicazione non ci ha aiutato, ma parlando con amiche e amici è stato interessante il confronto, che fa riflettere su tante cose. Può e deve essere un’occasione di riflessione, non dobbiamo farcela sfuggire noi che la stiamo vivendo. Io mi sono ritrovata a cambiare idea abbastanza velocemente sul tema virus rispetto ai primi giorni. Cambiare idea su un’opera è un po’ la stessa cosa. Ammetterlo non è stato facile. Confrontarsi con l’idea della morte che ci sembra sempre lontana, non solo intesa come morte corporale ma anche delle relazioni, dello spazio pubblico, delle mostre credo cambi anche il modo di lavorare, non può rimanere uguale. Cosa lasceremo dopo di noi, cosa resterà del nostro lavoro? Cosa vogliamo che rimanga e cosa venga dimenticato. Dimenticare un’opera, cancellarla è ammettere un errore, non riconoscere una cosa fatta da noi un po’ come quando rileggi le pagine di un diario e provi quasi vergogna, ti senti scema, non ti riconosci. Ecco io vedo il mio lavoro come tante pagine di uno stesso diario un libro, da un lato mi piace ci sia unità, coerenza, dall’altro aspetto sempre l’imprevisto, un salto che mi faccia voltare pagina e iniziare un nuovo capitolo. Questo, per me, mi sembra un momento per togliere e non aggiungere opere, quello che mi interessa e trovare una immagine che parli di questo togliere, un modo di rendere visivo questo occultamento e questo mi sembra difficile quasi epico.

Concetta Modica è nata a Modica, vive a Milano. Tra le sue personali: Excoperta alla Gamec di Bergamo a cura di Giacinto di Pietrantonio e Alessandro Rabottini, One more time alla Galleria Umberto di Marino, Quel che resta a cura di Francesca Pasini per La quarta vetrina/Libreria delle donne Milano, Epico/Fragile a cura di Agata Polizzi alla Galleria FPAC, Segni per far fiorire vasi a cura di Ilaria Mariotti per Villa Pacchiani, Trilogia di Orlando a cura di Michela Eremita, progetto in più sedi tra cui Nottilucente, Spazio COSMO e Francesco Pantaleone arte contemporanea sua Galleria di riferimento. E’ cofondatrice del progetto RaccontoDi20. Ha partecipato a mostre in spazi pubblici e privati tra cui: American Academy in Rome, Galleria Biagiotti a Firenze, Vanessa Quang a Parigi, Fondazione Pistoletto a Biella, Fondazione Ratti a Como, Biennale Giovani Artisti del Mediterraneo, SerrOne a Monza, Botkyrka Konsthall a Stoccolma, Docva a Milano, Villa Romana a Firenze, Das weisse haus a Vienna, Museo Riso a Palermo, Placentia Arte con cui ha installato un’opera permanente nei giardini Margherita di Piacenza. È stata scelta come artist resident nel programma di Raumars a Rauma in Finlandia nel 2009. Partecipa a progetti di Artist Run Space come MARS Milano e BRINK nel Regno Unito. È stata tra i finalisti di Qui l’arte è di casa concorso di arte pubblica indetto dalla Gamec e dal Comune di Bergamo. Appartiene allo Stato di Filandia un luogo geografico inventato e alimentato da una speciale popolazione di artisti. Nel 2013 è uscito il suo libro In pasto al presente edito da A+Mbookstore di Milano

Concetta Modica