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Gabriele Landi: Ciao Gino tu hai iniziato come scultore per passare nel tempo alla fotografia e all’installazione. Non senti nostalgia della manipolazione della materia?
Gino D’Ugo: La nostalgia fa parte dell’esistenza, è una linea che si protrae nel tempo, un contatto col passato, il distante e il presente, e così ci accompagna sempre, anche quando non lo sappiamo. Non provo nostalgia riguardo alla manipolazione della materia, semmai è lei che si insinua nelle cose della mente in un ambito più esistenziale.
Per me ci sono stati molti passaggi mentali dal periodo delle prime sculture, anche quello di non fare arte per qualche anno: un processo di decostruzione, una valutazione dell’ingombro delle “cose” che ci circondano, dell’eccesso che rischia il fuorviante, come guardare una cosa ed assuefarsene senza poterla ascoltare.
Dove va a finire questa “materia”?
In realtà la sostanza di questa è ben altro, necessita di parlarmi, di vibrare e per fare questo ha bisogno di un continuo attraversamento, uno scarto tra ripetizione e differenza attraverso la svalutazione.
La memoria tattile è qualcosa che resta, anche se le mani sono più fredde, mi rendo conto che nel tempo si è trasformato l’approccio, e di conseguenza ne ho semplicemente ampliato il concetto, ovvero, ogni cosa può essere scultura nel rapporto che c’è tra la forma e lo spazio circostante che è materia stessa, come anche tra noi e ciò che ci circonda e la stessa parola è diffondersi del corpo e vibrazione nello spazio.
Mentalmente c’è un processo all’essenziale che passa per una moltitudine di circostanze. Questo mi ha portato ad utilizzare diversi modi senza escluderne alcuno, tra cui l’installazione, la fotografia che è spesso un appunto.
Mi fai pensare alla storia della scultura, dall’evocazione dei Dolmen al monumentale per principi e imperatori o a quello che è stato il più grande scultore, in senso stretto, del nostro ‘900, Arturo Martini, ci sono passaggi fondamentali nel tempo da considerare e la monumentalità a ragione è stata sostituita dalla “merda d’artista”.
C’è la possibilità di lavorare su una forma di “libertà”, con tutte le considerazioni per il vuoto che ne amplifica la portata.
Gabriele Landi: Questo processo di decostruzione a cui fai cenno è ancora in atto?
La scelta di non avere uno studio fa parte di questo processo?
Gino D’Ugo: Questo processo non è qualcosa di cui rivendico l’appartenenza, è qualcosa che percepisco dello stato delle cose e che appartiene all’esistente in modo ampio, una mancanza di progressione lineare.
Si è abituati a pensare, per comodità o per necessità che le cose che ci circondano siano assolute, a volerle trattenere per rassicurarci, a volerne costruire ancora per imporre se stessi, ma è spesso un seguire delle tracce di cui si è perso il senso originario.
Chiaramente non mi interessa il proclama ideologico e mi rabbrividisce la giustificazione funzionale,
mi aspetto invece un’ eccezione.
L’eccezione è ciò che coglie la differenza tra la costruzione e la decostruzione, accetta la perdita senza perdere sè, prende atto dello stato di bilico in cui ci si trova, mi sento di rispettarne l’essenza.
Attraverso tutto questo può delinearsi una progressione identitaria.
La scelta di non avere un altro studio, inteso come luogo quotidiano continuo, dopo aver lasciato due anni fa quello che avevo a Sarzana, è legato a diverse contingenze che vanno dal carattere della funzione e della necessità a quello mentale.
Ora il lavoro artistico si compie tra la mia casa, un piccolo fondo dove ho l’essenziale e la casa sull’Appennino Tosco-Emiliano, a un’ora e poco più da dove abito, dove ho la possibilità di affrontare possibili lavori più impegnativi nel senso fisico del termine ma anche essere mentalmente in connessione con una dimensione che mi appaga, è una questione di tempo e spazio per la mente… e per il corpo.
In realtà lo studio è per me uno un luogo in più luoghi, credo che la dimensione dello “studio” sia nella testa, negli angoli in disparte, e possa essere in luoghi appropriati alle necessità del momento.
Gabriele Landi: La relazione con gli altri, la collaborazione e il coinvolgimento di altri artisti, come nel caso di “La pratica inevasa” nella realizzazione di un progetto, può essere letto come la realizzazione di una scultura relazionale di cui tu sei l’attivatore e che in qualche modo attraverso questa prassi ti sottrai al peso del esserne l’autore.
Gino D’Ugo: Le relazioni creano la misura, il senso delle distanze, la differenza e l’affinità col prossimo, oltre la fissità oggettuale mettono in luce aspetti che non ci si aspettava ed evidenziano ombre.
Se si pensa alla scultura nel senso classico del termine si pensa alla sottrazione della materia e alla sua addizione nel caso del modellato, con la caratteristica di voler giungere ad un prodotto finale che è oggetto appunto.
La pratica inevasa in questo senso può essere scultura in continua mutazione, lo spazio che ci separa è lo spazio di luci e ombre, del non detto e del raccontato, dell’omesso e del riletto..
Mi interessava creare un luogo libero dove ripensarsi in termini personali, una riappropriazione di Sé.
Questa esclude il concetto di risultato finale, la possibilità di scavare e evidenziare è infinita, quella del raccontarsi è possibile e necessaria al prossimo, quella di interpretare poi porta ancora più in là i confini, un infinito plasmarsi.
Mi sono ritrovato ideatore e attivatore, stimolatore e ricettore, ordinatore e primo spettatore senza dover essere controllore o censore, questo è un priviligio.
Come attivatore lancio un sasso nello stagno e mi stupisco io stesso di ciò che ne deriva.
Non avevo pensato a questa cosa del sottrarmi, ma va bene, mi permette di non farmi problemi in questo senso, è un campo vasto e pulito da regole di politically correct.
Gino D’Ugo nato a Marino RM 1968, dal 2014. vive e lavora tra Lerici SP e l’Appennino tosco-emiliano. Laureato in scultura all’accademia delle belle arti di Roma ha sviluppato un approccio alle arti che slitta sempre più frequentemente verso la forma come spazio di interrelazione e concetto utilizzando l’immagine, la parola, lo spazio e la relazione interpretativa con le persone, con risvolti nell’ambito dell’esistenziale o del politico, attraverso il gesto della sacralità quotidiana e con una apertura di interpretazione al libero arbitrio.
Dal 2016 é direttore artistico dell’osservatorio per l’arte contemporanea Fourteen ArTellaro.
Attività 2019/2021
2020 Residenza e II° appuntamento espositivo per La pratica inevasa #2, Palermo KaOz Art recidency, a cura Lori Adragna e Andrea Kantos.
Evento collaterale ARKAD per Manifesta La pratica inevasa#3, Oratorio diSanta Maria in Selàa, Tellaro di Lerici SP, a cura di Lori Adragna, Dimora Oz e Analogique.
2019 Tempo fertile, installazione audiovisiva, a cura di Valentina Muzi, Gate26a di Modena – La pratica inevasa #1, 16Civico Pescara
2020 -DA CASA | Abitare il tempo sospeso AlbumArte (Roma)- Tempofermo 16Civico (Pescara) a cura di Christian Ciampoli e Chiara Scarlato – PRIMA NECESSITA’//BASIC NECESSITIES SpazioY (Roma) – #A CASATUTTIBENE progetto online e editoriale, Espoarte-Vanilla edizioni.
2019 Imago Murgantia emergenze artistiche , a cura di Azzurra Immediato e Massimo Mattioli. 20×20, AlbumArte, Roma, a cura di Claudio Libero Pisano.
Attività correlate: 2020/21 cura della rassegna Osare perdere per Fourteen ArTellaro
2020 realizzazione in collaborazione con Andrea Luporini del videoclip Resurrezione per il gruppo punk rock dei RADIOZERO – 2019 cura della rassegna di videoarte La superficie accidentata, Fourteen ArTellaro, oratorio di Santa Maria in selàa di Tellaro SP – Addio, scritto tematico per Monolith Volume – Fotografia e arte / Lo slittamento dell’immagine, incontro con Gino D’Ugo e Andrea Luporini al Talent Garden di Sarzana per Contrasti / Spazi Fotografici. – 2018/19 cura della rassegna espositiva La superficie accidentata, Fourteen ArTellaro.


stampa fotografica, cornice cera

Tempo Fertile installazione audiovisiva2019

Affittasibilico(vistamare)
disegno2020

Appenino tosco-emiliano

La democrazia ve la dovete meritare2021
foto storica rielaborata

