Le voci sono di Silvia Camporesi, Claudia Losi, Silvia Infranco, Serena Fineschi, Loredana Longo.
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Silvia Camporesi: Cara Marina, la cosa che mi colpisce ogni volta che parliamo è la passione che emani per le cose di cui parli. C’è una vera luce che illumina la tua figura e che sento provenire dal tuo rapporto con l’arte e con gli artisti. Non sei una semplice curatrice, ma entri in sintonia emotiva ed intellettuale con gli artisti, creando un mondo entro il quale scambiare idee. La mia domanda è proprio relativa a questo rapporto: cosa significa per te curare una mostra e quali sono le suggestioni che ti muovono in questo processo?
Claudia Losi: Già…ci conosciamo da diversi anni e molte sono state le occasioni per incontrarsi e lavorare insieme. Una caratteristica che mi ha sempre molto toccato del tuo “curare” è l’attenzione e la presenza con cui segui i progetti e gli artisti con cui collabori. Ascolti, ribatti se occorre e capisci quando “mollare”. Tutti aspetti di una relazione che, anche umanamente, credo siano importanti.
Come declini la tua cura? Cosa ascolti dell’artista con cui lavori per indirizzare il lavoro curatoriale?
Marina Dacci: Posso rispondere a entrambe le domande che sono affini e da un certo punto di vista contigue:
Amo tanto l’arte e la poesia, la loro natura sincronica ed evocativa. Mi fertilizzano, mi lasciano libera di creare le mie personali connessioni e di vivere intensamente il mio “essere al mondo”.
Mi piace tanto vedere mostre, scoprire opere, leggere… direi che è una necessità. Quando succede che io, in qualche modo, da fruitore passi dall’altro lato e sia coinvolta nel processo di generazione, allora credo sia naturale che si possa sentire il mio entusiasmo e la mia passione… diventa un gesto oblativo che non chiede niente in cambio, se non il piacere di viverlo.
Per quanto riguarda la figura curatoriale, vorrei partire da un assunto chiaro per me (e forse condiviso anche da alcuni l’artisti?!) su cosa sia o debba essere un curatore che opera con artisti viventi; io ho avuto soprattutto rapporti con artisti viventi nel mio percorso di lavoro.
Comincio in sottrazione: un buon curatore non è un critico, non è uno storico dell’arte (anche se può essere entrambe le cose, come professione multipla); un buon curatore non è tantomeno un giornalista.
Non è detto che scriva su una mostra; il suo compito principale è essere un supporto (a volte non visibile) dell’artista e di ciò che ha in mente di fare; il curatore è il controcanto: deve esserci, ma non essere protagonista. Deve far del suo meglio perché le cose accadano con il migliore esito possibile, mettendo le sue idee e la sua sensibilità “a servizio”.
Il curatore cura le opere, la mostra ma anche l’artista in quanto tale e in quanto persona: solo conoscendo l’umanità sottesa alla ricerca dell’artista è possibile creare una sintonia finalizzata al progetto, perché il progetto possa restituire la sua aura al pubblico e non sia una sequela di “belle opere”. È una relazione che richiede tempo e disponibilità mentale e soprattutto emotiva: tempo che a volte non è tradizionalmente “monetizzabile”, ma umanamente prezioso e insostituibile. Perciò, ascoltare tenendo testa e cuore aperti senza partire da visioni preesistenti sull’artista, cercando di comprendere le tensioni reali e profonde della sua ricerca e, in base a questo, stimolare e suggerire, ma imparare anche a tirarsi indietro, a fermarsi (come dice Claudia) sono qualità importanti quanto osare e mettere in gioco anche se stessi… è sempre una partita aperta.
Il contributo del curatore sta dentro il processo, non dopo il processo, non a cose fatte; spesso noto che l’artista è lasciato solo, per poi vedere il curatore che si limita a scrivere un testo.
È per questo motivo che ora, terminata la direzione alla Collezione Maramotti, ho scelto di seguire alcune mostre e lavorare con artisti con cui ho una buona relazione umana, nata e coltivata nel tempo. Scegliere e approfondire. Tutto questo porta degli indubbi vantaggi anche a una mia crescita umana e personale.
Silvia Infranco:Ti ho percepito, fin dal primo incontro, come una donna di forti passioni in cui scorre un’energia profonda e allo stesso penso tu possieda una rara delicatezza e perspicacia di ascolto, è come se qualcosa in te mi evocasse altri tempi e altri ritmi. Nella mostra “Traces” che hai curato presso il Museo Civico Medievale di Bologna all’inizio dello scorso anno, sono stata molto colpita dalla fluidità di dialogo che sei riuscita a fare emergere tra le opere contemporanee e i reperti custoditi nel museo. Mi piacerebbe tu mi parlassi delle evocazioni che l’elemento arcaico e l’universo simbolico allo stesso sotteso suscitano in te rispetto alla capacità di generare il nuovo a cui il contemporaneo auspica.
Marina Dacci: Finora ho parlato soprattutto di come intendo la figura curatoriale in progetti di un solo artista e vivente. Per quanto riguarda le mostre collettive il discorso è un po’ diverso: certamente l’idea, il concept di una mostra appartiene a questa figura, ma nasce come interrogazione posta agli artisti che, attraverso le loro opere, aprono a loro volta nuove domande, vie fertili di illuminazione.
Per quanto mi riguarda ho degli ambiti di interesse privilegiati che nascono dalla mia personale esperienza di vita: è su questo che sviluppo idee di mostra e propongo i nomi degli artisti e le opere.
A volte il luogo in cui si inscrivono le mostre è un territorio neutrale dove lo spazio incide come spazio vuoto tra i lavori, ma anche in questo caso lo spazio vuoto diventa parte del lavoro durante un allestimento e può caricare di maggiore potenza l’opera. Questo si sa.
Altre volte, come la mostra al Medievale di Bologna, il luogo è carico di stimoli, lo spazio di sovrapposizioni visuali e concettuali (come del resto accade in molti musei); allora quello che mi conduce è la relazione con l’energia che può contaminare e cambiare la percezione non solo dell’opera in sé, ma anche del luogo che la ospita: una sorta di lotta contro l’idea che la stratificazione di significati e di visioni sia un processo lineare: questo lo sento da sempre. Creare una specie di rottura temporale che procede come una ragnatela nel luogo espositivo che spinga il visitatore a fare i suoi “viaggi personali” e a non essere eterodiretto…. il trionfo dell’immaginazione.
Questo è il motivo per cui sia nelle mie letture, sia negli approfondimenti sull’arte passo e scivolo tranquillamente dagli egizi e dal medioevo al contemporaneo, seguendo il filo rosso della mia testa. Certo, gli artisti sono proposti su quest’onda e le opere mi devono parlare e trovare un punto di incontro con la mia sensibilità e le mie tensioni mentali e anche fisiche in un certo modo. Le opere scelte devono possedere una remota “familiarità” con il reperto /manufatto o costituire un’amplificazione dello spirito del luogo in cui l’opera nuova, che viene inserita, possa innescare dialoghi attraverso letture polisemiche o cortocircuiti.
Serena Fineschi: Viviamo un periodo di excessus artistico che, in una condizione di reale interesse e comune necessità, potrebbe definirsi come un momento artistico e creativo mai vissuto prima.
Il paradosso, a mio avviso, è che non esista una reale attenzione di un pubblico così ampio nei confronti dei linguaggi contemporanei e che la mole dei contenuti prodotti siano così superficiali, ripetitivi e banali da non destare alcun cambiamento artistico, né sociale. È come se questa depressione, nata molto tempo fa ma così evidente in questo ultimo anno, abbia creato artisti da salotto privi di qualsiasi urgenza e comode tesi di pensiero a supporto di opere sfacciatamente rassicuranti, presentate in contenitori estranei a riflessioni critiche. Credo che questa tendenza ci obblighi a mettere in discussione il ruolo e la responsabilità dell’artista, del curatore, della critica e dello spazio espositivo (sia pubblico che privato) e prendere coscienza delle “deviazioni” intraprese dall’arte contemporanea, rispetto alla sua doverosa vocazione. Cosa pensi a riguardo?
Marina Dacci: Partiamo dagli artisti: lo sfacciatamente rassicurante è come un comodo divano. La sfida è alzarsi e affacciarsi alla finestra, al mondo vero, portandosi dietro le proprie domande, i propri inferni personali e le proprie speranze, sporcarsi le mani, mettersi in gioco, saper creare una rete di pensiero condiviso “diverso” dallo status quo che si riassume nel gradimento commerciale.
Sono consapevole che soprattutto in momenti di crisi e di precarietà si fa più forte il bisogno di muovere le braccia e le parole per dimostrare di esserci. Ma anche un artista, e soprattutto un artista, ha bisogno di silenzi in determinati momenti, silenzi come incubatori, in altri momenti ha urgenze espressive che vanno assecondate cercando uno scambio possibile col fuori da sé. Ma solo se c’è un sostrato autentico: questo è a mio avviso è un modo nuovo di assumere oggi uno spirito critico.
Mi rendo conto che ideazione e comunicazione -oggi- sono fortemente legate a quello che determina e che chiede il mercato, ma fare l’artista di “seconda mano” non serve né all’artista né al suo pubblico. Meglio inventarsi un nuovo mestiere.
Il curatore e il critico (figure derivative dall’artista che è il vero motore del processo), così come le istituzioni (che hanno una valenza educativa) avrebbero quantomeno il compito di leggere e separare quello che è autentico (come fonte di produzione dell’opera) e quello che è derivativo e “di moda”, cercando di arginare e tenere a bada le dinamiche puramente commerciali. Dire dei no, ignorare o rilanciare è già un buon compromesso.
Lo si sa fare anche nelle relazioni quotidiane, perché non nell’ambito artistico? Tutto questo ovviamente, va a favore della valorizzazione e dello sviluppo di un’arte che possa chiamarsi tale e diventare una voce importante di scambio e di crescita anche critica del pubblico; un’arte diffusa attraverso una molteplicità di strade che vanno ripensate continuamente e su cui prendersi dei rischi.
Loredana Longo: Che artista avresti voluto essere? Non chi, non voglio sapere se ti immedesimi in un artista noto o meno, ma cosa avresti fatto.
Marina Dacci: Oddio, questa domanda arriva come una provocazione… Non ci ho mai pensato, tu -invece- devi averci pensato Loredana…
Mi piacerebbe forse essere un’artista nomade che si sposta continuamente per aprire e creare relazioni con persone di culture assolutamente differenti; entrare nella loro testa e nel loro sentire, aprire uno scambio. Non attraverso residenze, ma in modo random, dove la vita ti conduce. Le opere nascerebbero da queste relazioni, generate da quello che trovo e vivo in un luogo preciso, in una struttura sociale precisa. Potrei scoprire ciò che è comune e resiste alle distanze e al tempo per provare a ragionare sull’idea di ricostruzione dell’essenza dell’uomo, che sia portatrice di tratti indelebili e universali; non come scelta dimostrativa ma come scoperta in sé.
La visione e la condivisione di queste opere -sicuramente- non vorrei che fosse destinata a canali commerciali, ma fosse nomade a sua volta e che avesse un qualche “ritorno” nella realtà in cui è stata pensata e realizzata.






