Intervista a Gianni Asdrubali

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Gabriele Landi: Ciao Gianni, quando risale il tuo primo lavoro?

Gianni Asdrubali: Il mio primo lavoro risale al 78/79 “Muro Magico”: una stanza vuota, aggredita in una azione combattiva sul vuoto stesso. Un’azione che a partire da una invasione totale su quel luogo va poi a ritroso fino all’azzeramento, fino allo stato iniziale da dove tutto era partito. Il tentativo di essere protagonista sul vuoto è sanamente fallito. Ma in questo fallimento si rende chiara la presa di coscienza che il vuoto non è più un contenitore che va riempito delle proprie visioni e racconti.  Una parete vuota, non è più un supporto,  è ” altro”. È la presa di coscienza che il vuoto è uno stato iniziale generativo di tensione, il motore originario che scatena l’istinto, il pensiero, a fare una azione ultima, necessaria, ma tragica: tragica perché quell’azione non è più protagonista, come lo era prima, ma è strumentale alla tensione del vuoto che l’ha originata. Di conseguenza cambia tutto. Cambia il fatto che e’ la stanza PIENA DI VUOTO, ( e non la stanza vuota) che agisce nel chiamare ad agire: chiama l’uomo, in quanto strumento, al fine di scatenare un movimento che tende a far sentire il rumore di quel vuoto originario. La liberazione dell’uomo in questa nuova coscienza non è più nel suo protagonismo progressivo, attivo, ma nell’annullamento del proprio “io”, nel bruciare se stesso come strumento in funzione di un fine “altro”. Anche la psicanalisi ci ha messo un secolo per capire che il problema era proprio il significato, l'”io”, e che quindi il “tentativo di  felicità” si raggiungeva non nell’affermare il proprio ” significato”, la propria identità, ma al contrario, nel consumarla, nell’annullarla, come un qualsiasi strumento, in altro da se.

….Poi verso i primi anni 80 ho cominciato a sostituire il termine “vuoto ” con “assenza”, in quanto il vuoto in sé, in assoluto, non esiste. Ogni vuoto è attraversato da infinite linee di forza e di energia che non riusciamo a materializzare con lo sguardo ma che agiscono lo spazio e agiscono su di noi. Esiste invece la mancanza delle cose, ed è proprio in ciò che manca che tutto principia: tutte le nostre azioni di “senso” a “cercare”, sono determinate dal semplice fatto che lì non c’è niente. Ma se questa assenza, come dicevo precedentemente, è il motore, è l’origine di ogni pienezza, paradossalmente questa immagine compatta e piena, ci dice, ci fa sentire  tutto il silenzio della sua origine:  Di qui il risultato ultimo e imprevedibile si presenta come una immagine frontale, dove forma e antiforma, movimento e stasi, pieno e vuoto, affermazione e negazione… tutto è connesso e fuso in un unicum contraddittorio di verità.

Questa è stata la mia partenza, e si capisce come questo mio inizio, che aveva a che fare con un attitudine scientifica e dinamica del pensiero, doveva andare poi a scontrarsi con tutto quel clima postmoderno, dell’accumulo narrativo e citazionista che si stava affermando ovunque.

Gabriele Landi: Il tuo lavoro prende il via alla fine degli anni 70 in quel periodo si assiste ad un ritorno alla pittura figurativa la Transavanguardia i Nuovi Nuovi, l’Anacronismo muovono i loro primi passi. Hai avuto rapporti con questi artisti, ti ha mai interessato il loro lavoro?

Gianni Asdrubali: Per quanto riguardo il ritorno alla pittura non vuol dire niente, non è che la pittura ritorna o non ritorna, questi sono pseudo problemi culturali, mode… Un artista si appropria dello strumento che più gli appartiene. Io uso la pittura perché mi è più naturale ma se fosse stato più congeniale il violino avrei usato il violino. È il risultato che conta, e se è GIUSTO supera, annulla lo strumento stesso, diventa altro. Cosi è per tanti artisti, come ad esempio il video in Bill Viola, i chiodi in Castellani, il Rasoio in Fontana, il carbone in Kounellis o il mio pennello semi bruciato e attaccato a un bastone come fosse una scopa. Di esempi se ne possono fare una infinità. Il fine per un artista è sempre quello di raggiungere quella zona impervia, quella soglia che mette in relazione il detto con il non detto.

Il problema invece non è stato il ritorno alla pittura, che, ripeto, non vuol dire nulla, quanto piuttosto il fallimento ottimistico, occidentale di un progresso a tutti i costi e fine a se stesso. Una vera e propria religione del denaro  che ha tolto ossigeno al “sacro”, alla spiritualità e che di conseguenza, aumentando il nichilismo, ha annichilito il pensiero critico. E allora la via più facile è stata quella della “restaurazione del novecento”, dell’accumulo narrativo, della citazione, etc.. E’ in questo paradigma che nasce il postmoderno e continua tutt’ora, ed in questa restaurazione tutti gli strumenti vanno bene: dalla pittura, al video, all’installazione etc etc..

…Gli Anacronisti, la Transavanguardia, i Nuovi Nuovi  hanno anche ottimi artisti, ma non mi ci sono mai relazionato in maniera profonda. Questi movimenti sono state tutte forme postmoderniste, un’ arte di superficie e ottimistica. Ora, pessimismo e ottimismo non sono categorie filosofiche ma è pur vero che una azione necessaria e pure tragica si scatena sempre da una mancanza, mai da un pieno.

…Nei primi anni 80 ho lavorato con la galleria la Salita dove si svolgeva un lavoro più ai margini, involontariamente in contrapposizione alle regole espressive allora dominanti,  una ricerca di lavoro rivolta più verso un azzeramento del linguaggio. Un azzeramento però non fine a se stesso ma (a differenza del minimalismo o di support surface o della pittura analitica italiana) solo strumentale al fine di raggiungere una nuova immagine di senso del reale; un ritratto della realtà nel vivo del suo perpetuo declinarsi. Dunque, che cosa è reale se non qualcosa che si sposta continuamente? Che si dà e si nega nello stesso istante del suo apparire? Che “è” e “non è” allo stesso tempo? Che è non in quanto “cosa” ma in quanto pura interazione tra l’essere e il non essere della cosa?

Questa ricerca di lavoro si è sviluppata all’interno della Galleria la Salita con Gianfranco Notargiacomo, della generazione prima della mia, e poi con Mariano Rossano con il quale è nato il gruppo “Astrazione Povera” sostenuto criticamente da Filiberto Menna. Contemporaneamente anche a livello europeo, si stava originando l’idea di una “nuova forma” che,  alcuni anni dopo, nel 1986, Flavio Caroli organizzò in una mostra internazionale, “Nuove Geometrie”, alla Rotonda della Besana a Milano.

Comunque il mio lavoro, agli inizi degli anni 80, ha subito deviato, anzi è sempre stato fuori posto rispetto a queste nominazioni: astrazione, composizione ecc. Il mio intento è stato invece quello di trovare nuove armi, nuovi strumenti conoscitivi di lettura dell’opera: uscire dal novecento e dagli stili.

Per cui parole come composizione, astrazione, costruzione.. per me non avevano molto senso. Nel mio vocabolario, ho sostituito  questi termini con: fusione generazione, interazione, incarnazione. Come aveva ben avvertito Lorenzo Mango, il mio lavoro ” “non si astrae ma si incarna” (testo catalogo “figurazione futura, piccola storia del tromboloide”, 1992).

Gabriele Landi: L’energia che si sprigiona dall’atto del dipingere è il motore che ti spinge ad invadere lo spazio?

Gianni Asdrubali: No, come detto già all’inizio è ciò che manca il motore e non l’energia che si sprigiona nell’atto del dipingere, quest’ultima è secondaria. Non è, come si è  solito pensare, che è l’artista ad avere questa energia innata e che di conseguenza la esprime su un supporto vuoto. È il contrario, è il supporto “vuoto” che scatena l’impulso ad agire. Come detto  all’inizio, c’è questa coscienza di sapere che il motore originario è ciò che non c’è. Come una qualsiasi persona che si attiva non quando è piena di cose, ma quando gli manca qualcosa: una persona, il cibo o altro. Cioè, il pensiero  si attiva nell’uomo come conseguenza di una situazione di assenza/emergenza e non di pienezza, pertanto è inevitabile un combattimento tra l’artista-strumento e l’assenza originaria. Il risultato, nel mio caso è un ribaltamento dell’origine nel suo contrario, dall’assenza alla presenza,   dall’astrazione all’incarnazione in un “corpo di senso”, in un immagine piena, compatta, dinamica. Ma tutta questa fibrillazione, invasione e movimento che appare nel mio lavoro ci dice, ci fa sentire, qualcosa di indicibile e di assolutamente statico, fermo, senza tempo,. Tutto questo “pieno” ci dice della sua origine, di qualcosa che non è. Un paradosso.

Gabriele Landi: Mantenere viva questa tensione in più di 40 anni non deve essere semplice?

Gianni Asdrubali: È una pratica di vita senza impegno. Non c’è un impegno, non mi sono mai impegnato. La tensione di cui parli passa attraverso una necessità e un piacere, come in un bambino nel gioco. Solo che il bambino poi cresce, smette di giocare e comincia a “impegnarsi nella vita”, mentre l’artista gioca sempre perché ragione e follia sono sempre interconnesse. L’artista vive la sua “inoperosità” attiva.

A tale proposito vorrei citare una frase di Giorgio Agamben sull’artista e una parte del testo di Bruno Corà sulla mia mostra a Palazzo Collicola di Spoleto.

“L’arte non è che il modo in cui l’anonimo che chiamiamo artista, mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca di costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del musicista, del falegname, in cui, come in ogni forma di vita, è in questione nulla di meno che la sua felicità”. Giorgio Agamben.

“Anche per Asdrubali sembra valere la regola di altri Maestri per i quali “l’ultima opera è uguale alla prima” nel senso che l’elemento poetico, nel profondo dell’archetipo che manifesta, non evolve ma si ripete sempre, pur se con foggia di variazione esecutiva diversificata. Tutto ciò al punto da lasciare ipotizzare che vi sia, in qualche recesso neuronale dell’identità artistica di Asdrubali una sorgente pulsionale sempre attiva e inestinguibile, una scaturigine che esige di soddisfare una continua possibilità di forma, la quale è sempre penultima e pura variazione di quella eventualità ulteriore che non è ancora venuta alla mente e alla luce, ma che attende che ciò si compia. Si direbbe quasi che, nell’immaginario di un artista autentico si rinnovi il sortilegio mitico toccato a Sisifo, ma fortunatamente dal diverso destino, poiché per Asdrubali, come per Castellani o per J. Sebastian Bach, ripetizione e variazione sono il respiro che si rinnova nell’opera.

E a verifica di quanto fin qui asserito, è opportuno domandarsi attraverso quali fasi Asdrubali sia entrato in possesso ed eserciti questa lingua intrisa di musicalità variata, tutta sua e che adesso mostra di essere giunta a una maturazione dialogica in senso spaziale, che oltretutto – osservandone il vigore e le potenzialità – suscita anche l’interrogativo verso dove il suo logos visivo si vada rivolgendo” Bruno Corà (testo catalogo mostra “surfing in the alien”, Palazzo Callicola)

Gabriele Landi:Gianni ora parliamo dei lavori più recenti. Mi sembra che lo spazio in cui esponi i lavori per esempio non abbia più alcuna importanza. Talvolta esponi i tuoi lavori accostati in modo apparentemente  arbitrario o capovolti, quadri piccoli in pareti grandi… puoi parlarne?

Gianni Asdrubali: Si per me vale il contrario del site-specific. Non ho mai fatto un lavoro appositamente e in relazione allo spazio espositivo. Poi un artista che fa consapevolmente un lavoro per qualcosa mi sembra  un assurdo.  Non lavoro pensando allo spazio espositivo; in arte non esiste alcun luogo.  È l’opera che rende attiva l’inerzia del luogo, sia che si tratti di una parete bella e bianca di una galleria, sia di una parete sporca e scura di un officina meccanica, di una piazza, di un paesaggio,  o di un luogo terremotato come la mostra che ho realizzato ultimamente a Palazzo Collicola a Spoleto. Ma, per far si che un’ opera possa fare spazio, cioè possa attivare lo spazio circostante da passivo ad attivo, c’è  bisogno che questa sia fortemente autonoma, indipendente, una singolarità.  Occorrecioè che l’opera non sia agganciata ad alcun contesto ma che sia essa stessa il contesto. Tutte le informazioni del mondo che passano nella mente dell’artista e che  originano la forma/antiforma dell’opera sono solo strumentali e non protagoniste sull’opera. Tutte le informazioni/relazioni/interazioni, durante il processo di lavoro, devono annullarsi in funzione di una nascita, di un risultato ultimo che è “altro” rispetto alle informazioni iniziali.  Solo se l’opera è “sola” potrà fare mondo, altrimenti racconta del mondo.

Per quanto riguarda i miei lavori più recenti, cioè dal 1991 in poi, spesso ho usato lo spazio espositivo anche come sfida, per vedere se un’opera, anche se piccola, “teneva” in una parete molto più grande, oppure una opera più grande messa di traverso in un parete più piccola. Oppure opere esposte in un verso e poi in un secondo tempo capovolte, oppure modificando l’orientamento a caso. Come nella applicazione digitale realizzata dal gruppo  di ricerca Oramide ( Alessio Spirli e Cecilia  Tommasini), un ’opera interattiva “Zumber” dove il pubblico può interagire animando un insieme di mie opere.  Cambia l’immagine, che però mantiene la stessa intensità, perché le opere sono sempre le stesse.

Sta di fatto che quando accosto queste opere, che non sono in relazione tra loro, avviene una fusione per energia in una unità più grande, in una singolarità più grande: un’ opera + un’ opera + un’ opera + un’ opera = un’ opera più grande.

Il risultato è sempre uno, sia se tolgo sia se aggiungo.

Anche altri artisti, penso ai minimalisti, negli anni 60/70 hanno fatto qualcosa di simile, solo che in quel caso l’opera singola era un modulo  e questo modulo era “pensato prima” per essere collegato con altri moduli a comporre un insieme più grande o infinito. Ma quel modulo funzionava solo nell’insieme e non singolarmente. Nel mio caso invece ogni opera non è un modulo, ma è finita in sé e può stare da sola o insieme ad altre opere: un’ opera può stare a Palermo, un’altra a Kabul, oppure tutte e due le opere possono stare accostate, fondersi in una unità in un qualsiasi altro luogo.

Ma perché l’opera attiva l’inerzia di un qualsiasi spazio quotidiano? Eppure si tratta  di un opera chiusa in se e non “aperta”. Ma è proprio nel “finito”, in questa chiusura che non lascia fuoriuscire energia gratuitamente che questa opera emana qualcosa fuori da sé. L’opera apre per emanazione e non per comunicazione.  Un paradosso: un’ opera chiusa in sé che non comunica con nulla, che non significa nulla, ma apre ad altro da sé. Un limite senza confine. Una “scultura” senza dimensioni o infinite dimensioni in una frontalità sferica. Dove il supporto non è più un supporto, dove la superficie è la profondità stessa.

C’è uno spostamento quantico (da sempre nel mio lavoro) rispetto a quello lineare/euclideo. E in questa tempesta curvilinea, interattiva, generativa etc..  c’è bisogno di nuovi strumenti di lettura dell’opera. Come avvertito da Marco Tonelli in più occasioni sul mio lavoro “… In questo senso si capirebbe l’assurdità di definire astratta la sua opera, che in realtà è costantemente alla ricerca di figure, di strutture, trame e granularità intime, e forse cerebrali, dello spazio..  troverei più sensato definire in modo nuovo la sua opera: “quantistica”, “multidimensionale”?» Marco Tonelli

Gabriele Landi: Ho visto un video in cui dipingevi, come in una performance, davanti al pubblico questa è un’altra delle multidimensioni del tuo lavoro?

Gianni Asdrubali: In una geometria non più lineare, come ho già detto, i termini costruzione-decostruzione, composizione, relazione

… vanno sostituiti con generazione, fusione, interazione e simili.. e questo non perché si usa l’ultimo ritrovato, l’ultimo dispositivo tecnologico o altro, ma per il fatto che lo spostamento è avvenuto nella mente.  In questa visione tutto è multidimensionale, perché le dimensioni sono realmente infinite e allo stesso istante annullate nella superficie stessa. Come ho detto altre volte, la profondità è la superficie. In questo capovolgimento le dimensioni: alto-basso, destra-sinistra, sopra-sotto, avanti-dietro, concavo-convesso etc.. sono schiacciate, come in una fisarmonica, nella frontalità della superficie: l’infinito è davanti e allo stesso tempo la frontalità è profonda, sferica. Questa “scultura” non ha bisogno di dimensioni. Come aveva ben intuito Giovanni Carandente, alla Biennale di Venezia nel 1988 “..questa pittura che assume in sé le sembianze della scultura”, e Bruno Cora’  “…si deve prendere atto che la pittura di Asdrubali è certamente tutta frontalmente davanti agli occhi di chi la osserva, ma per ‘vederla’ realmente bisogna che lo sguardo vi penetri con un’ideale ‘capriola’, entrando e uscendo dalla sua sferica spazialità… quindi una frontalità profonda.” (Testo” nella curva della pittura”,Galleria Lampertico Milano).

Così è anche in queste mie performance eseguite su spazi di diversa misura. Uno più piccolo, l’altro più grande: quello più piccolo è una superficie di 120x170cm ( che è la misura dell’ampiezza massima del mio gesto) poggiata su un piano a 45 cm da terra. Nell’altro spazio più grande e che può continuare all’infinito, l’azione si svolge direttamente a terra con l’ausilio di un bastone a cui sono collegati più pennelli legati insieme.

Prima faccio un’azione su tutto il campo che ho a disposizione, poi “taglio” lo spazio che mi interessa e in un secondo momento decido poi il telaio. Definisco con il limite del telaio quello spazio che ho scelto, che diventa il “quadro” e che esporrò da solo o insieme ad altri “tagli di spazio”.

Non ho mai fatto un quadro, ho fatto uno spazio. Ma si potrebbe dire anche il contrario, cioè che tutto è quadro, perché se io metto una mia opera in una parete e questa opera attiva lo spazio inerte della parete, allora in questo caso la parete diventa il quadro. Così su una piazza, così su un paesaggio, etc etc.. fino a tutto l’ universo, gli universi : tutto è “quadro”  ma senza confine.

Gabriele LandiE il colore?

Gianni Asdrubali: Ad un certo punto del mio percorso, dal 2012, le mie opere  sono diventate più massive e questo avviene proprio con l’uso del colore, del timbro dal più scuro al più chiaro, fino al bianco originario della superficie. Un mettere per togliere (come sempre nel mio lavoro), ma in un unico procedimento, in un unico momento spaziotemporale, dove gesto, materia e colore si unificano in una cosa sola. A tale questione lascio questa breve testimonianza di Lorenzo Mango. “Al tempo dei Tromboloidi, ma anche in altre fasi del suo lavoro, il procedimento di Gianni era distinto in due fasi: l’azione e la meditazione. Il primo era legato al gesto che agiva rapido sulla superficie lasciandovi sopra una traccia, la seconda corrispondeva al momento in cui Gianni «finiva» il lavoro, completando, riempiendo, in altre parole: componendo. Oggi, per Zeimekke, il processo si è unificato: non c’è più un prima attivo e un poi meditativo ma il gesto porta in sé una costruzione, una composizione che è già finita, che non può, per la logica stessa del procedimento pittorico utilizzato, essere più toccata. Definirei questa stagione una azione meditativa, determinata non solo da ragioni di natura tecnica ma, forse ancora di più, dal fatto che il metodo è diventato fisiologico, così che fare e meditare la forma sono diventati la stessa cosa.

….Una breve appendice su questi Zeimekke, un argomento generalmente trascurato quando si parla di Asdrubali e che, invece, mi sembra importantissimo. Avendo lavorato per molti, moltissimi anni (e facendolo tutt’ora) sul bianco e nero, ogni qual volta, come in questo caso, Gianni utilizza il colore, ci si limita a sottolineare come l’operazione riduttiva del segno funzioni anche in presenza di una gamma cromatica diversa. E, invece, credo che sulla questione della gamma occorra ragionare meglio. Asdrubali utilizza, in Zeimekke, rossi e blu con aperture al viola e al verde. Ma non basta nominarli questi colori, altrimenti si potrebbe intendere che abbiano un ruolo solo in quanto primari o complementari e ci si fermerebbe alla questione, pure importante, della riduzione degli strumenti espressivi. Invece a me sembra che il colore abbia una valenza sua propria, di grande importanza. Ha, quale che sia, una tonalità satura, particolarmente intensa, una incisività timbrica omogenea al tempo accesa e cupa. Che un quadro sia verde o rosso o blu non è indifferente. Il colore ha una personalità sensoriale fortissima che dispone il gioco di accalappiare col segno le linee forza dello spazio lungo una linea d’onda percettiva diversa. Tocca i sensi e, attraverso di essi, tutta la sensibilità interiore dello spettatore in una maniera unica e specifica.” Lorenzo Mango, ( testo in  catalogo mostra personale presso la Galleria Santo Ficara, Firenze 2016).

Gianni Asdrubali si afferma nei primi anni Ottanta, come protagonista di una ricerca contrapposta alle regole espressive allora dominanti.

Il suo primo lavoro, il Muro magico del 1979, è la presa di coscienza che il vuoto è la forza germinale che attiva e origina le nostre azioni.

Asdrubali espone per la prima volta nel 1982 alla galleria La Salita di Roma, dove seguirà poi una personale nel 1986. La prima personale è alla galleria Artra di Milano nel 1984. In quegli anni, conosce il critico Flavio Caroli, con il quale parteciperà a diverse mostre: Anniottanta galleria arte moderna Bologna. Nuove Geometrie, Rotonda della Besana, Milano, 1986; Australian Biennale of Sydney, National Gallery of Victoria, Sydney, 1988; Italian Contemporary Arts , Taiwan Museum of Art, 1990.

Nel 1985 fa parte del gruppo Astrazione Povera , teorizzato dal critico Filiberto Menna, che darà luogo ad una serie di mostre: alla Galleria Marconi, Milano; alla Galleria dei Banchi Nuovi, Roma; alla Galleria Ghiglione, Genova; alla Galleria d’Arte Moderna Gallarate; La Salerniana, Erice. Nel 1986 partecipa alla Quadriennale di Roma , nel 1988 alla Biennale di Venezia e alla Biennale di Sidney. Nello stesso anno, viene invitato da Veit Loers alla mostra internazionale Schlaf der Vernunft , al Museum Fridericianum, Kassel. Nel 1990 espone a Palazzo Forti a Verona, alla Permanente di Milano, al Kunstmuseum di Darmstadt e al Museu de Arte Moderna de São Paulo, Brasile. Nel 1992 realizza il Tromboloide, un’opera che viene presentata per la prima volta alla galleria Il Milione di Milano e che segna un momento importante del suo lavoro nella definizione di uno spazio sempre più compatto e atomico.

Nel 1996 espone alla Galleria d’Arte Moderna di Spoleto, nella sede di Palazzo Racani Arroni. Sempre in quegli anni espone in varie sedi italiane ed estere: al Grand Palais di Parigi; alla Rocca Paolina di Perugia; alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma; al Museum Rabalderhaus di Schwaz; alla DuMont Kunsthalle di Colonia; alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna; alla Städtische Galerie di Rosenheim; alla Farnesina, Ministero degli Affari Esteri, Roma; alla Fondazione Bandera per l’Arte di Busto Arsizio; a Palazzo Bricherasio di Torino; a Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma; al MACRO, Museo d’Arte Contemporanea di Roma; a Forte di Belvedere a Firenze. Nel 2001, l’Institut Mathildenhohe di Darmstadt gli dedica un’ampia retrospettiva.

Nel 2003, nasce ZAMUVA. Un gruppo di ricerca, nato dalla collaborazione con la progettista Pamela Ferri, finalizzato al conseguimento di una nuova spazialità, in cui un ruolo fondamentale è svolto dalla coscienza del vuoto come principio generatore di qualunque azione dotata di senso. Questa spazialità prende il nome di Spazio Frontale ed è pubblicata nel 2005 da Prearo Editore, Milano, con un testo critico di Bruno Corà.

Asdrubali viene invitato nel 2011 alla 54° Biennale di Venezia. Nel 2013, nella bottega Gatti di Faenza, una serie di grandi opere in ceramica sono realizzate dall’artista e installate nello spazio espositivo Luigi Ghirlandi. Nel 2014, al BAC Biennale d’Arte Ceramica Contemporanea, nelle scuderie Aldobrandini di Frascati (RM), sono esposte alcune opere in ceramica realizzate nello stesso anno. A Montelupo Fiorentino, in occasione dell’iniziativa Materia prima promossa dal Comune e ideata da Marco Tonelli, una grande opera monumentale in ceramica di 12 metri x 4 metri viene installata sugli argini del Fiume Pesa.  Sempre in ceramica è l’opera acquisita dal Museo Internazionale della Ceramica (MIC) di Faenza in occasione della Settimana del Contemporaneo nell’ottobre 2016. Sempre nel 2016 il gallerista Matteo Lampertico dedica una mostra personale di Asdrubali all’interno della fiera di Bologna con una grande opera di 6 metri. Alcuni mesi dopo viene inaugurata, a Milano, sempre alla galleria Matteo Lampertico la mostra personale ‘ASSOLO. Nel 2018 la personale al museo Bilotti e nel 2020 l’antologica alla galleria d’arte moderna di Spoleto nella sede di Palazzo Collicola.