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Massimo Minini: Bene allora vediamo cosa vuoi sapere da me… Ad ogni buon fine, io ho fatto un libro apposta, qui c’è la bozza, guarda che titolo ha il primo capitolo…
Gabriele Landi: Autointervista, tutto quello che avreste voluto sapere su MM e non avete mai osato chiedere.
MM: Quindi comperate il libro e fate a meno di leggere questa intervista! (ride)
GL: Il libro Massimo è di fatto una raccolta di scritti…
MM: Sì, testi, comunicati stampa, una raccolta che si concentra soprattutto sugli ultimi dieci anni, ma qualcosa è anche precedente. Lo scritto che ti ho fatto leggere prima su Luciano Pistoi ha vent’anni. Ovviamente non ci sono tutti i testi, ne ho scritti molti di più! Scrivo anche dal computer. Uno passa una vita al computer e così… io per esempio invece di scrivere delle lettere normali scrivo delle lettere speciali, insulto la gente a seconda di come mi gira e quindi diventano dei racconti.
Poi ci sono i comunicati stampa; da qualche tempo gli artisti chiedono che li faccia io, sembra che io li faccia abbastanza bene e certamente non noiosi. Se osservi l’indice di questo libro noterai che il primo dei comunicati stampa ha per titolo Come NON si scrive un comunicato stampa: spiego cosa non si deve fare per avere un buon comunicato.
GL: Sostanzialmente lo destruttura?
MM: Ad esempio, non bisogna mai scrivere: “La Galleria Rossi ha il piacere di invitarla a vedere i capolavori del maestro Giovannino Bianchi nella sua centesima mostra nella nostra galleria…”. Se un comunicato stampa inizia così lo butto via subito! Li butto via anche se cominciano meglio: i comunicati sono tutti noiosissimi! Ecco perché mi sono inventato dei comunicati stampa molto particolari, in pratica qualcosa che non assomiglia assolutamente ad un comunicato stampa.
Per esempio, nel libro sui quarant’anni della galleria, nella capture che ho inserito, come si fa sempre, all’inizio di ogni libro per dimostrare di essere intelligenti, naturalmente ho citato un testo di Italo Calvino: “Chi si mette a scrivere, cioè lo scrittore, in genere è proprio qualcuno che vorrebbe leggere il libro che sta scrivendo. E cioè uno che dice a se stesso: “Che bello se ci fosse un libro così!” e nel momento in cui lo pensa lo scrive.” Così scrivo libri come li vorrei trovare: scusate ho questo difetto.
GL: Lei ha un’attività pluriennale…
MM: Eh sì, nel 2023 saranno cinquant’anni e anche la trecentesima mostra cadrà proprio in quell’anno. Aggiunga anche trecento fiere circa, siamo a seicento in tutto!
GL: Da dove ha origine questa passione per l’arte?
MM: Ovviamente vengo da una famiglia con degli studi alle spalle, l’ambiente era favorevole. Un po’ come in una staffetta, sono partito lanciato e non dai blocchi. Mia mamma suonava il pianoforte, dipingeva vasi di fiori, l’arte abitava in casa; infatti nel libro c’è un racconto dal titolo LEI (l’arte): LEI era lì in casa che mi aspettava ma io non me ne accorgevo… leggevo Salgari da piccolo, fantascienza da giovinetto, Cassola da liceale, Calvino da intellettuale, bolle e fatture più avanti. Sai poi finisce sempre così, a bolle e fatture!
GL: (ride) Poi si ha a che fare con la vita reale e…
MM: Sono così, un tipo abbastanza ironico, mi prendo amabilmente in giro per non infierire solo sugli altri. La cosa è iniziata così: era nell’aria. Al liceo (classico) avevo un bravissimo professore di arte, ma un po’ spaesato, incapace di tenere una classe di mariuoli, come sono i ragazzi di tutte le classi se perdi il controllo. In terza liceo siamo arrivati al Settecento: “Dopo è successo ancora qualcosa, anzi è successo di tutto, ma ormai non abbiamo più tempo, chi vuole si informi da solo!”
Non male come consiglio, a volte fare da sé è più formativo. Al museo sovente c’è una guida che ti spiega chi sono i vari santi, le loro storie, ma tu vorresti sapere ben altro, ad esempio perché quel verde, quel rosso, quell’azzurro. Così mi sono informato da solo su ciò che mi interessava e piano piano sono arrivato all’arte contemporanea. In parte la conoscevo già (Morandi, De Chirico, Fontana…), però il resto non mi era abbastanza noto. Così arrivai a Milano: Galleria del Milione, Gian Ferrari, L’Ariete, Naviglio, un modo nuovo per me a cui ho dedicato più tempo di quello che passavo in università.
GL: Da lì lei è entrato in galleria e non ne è più uscito, vero?
MM: Sì, mi hanno chiuso dentro! (ride) …senza più poterne uscire; a volte mi passavano il cibo sotto la porta.
GL: Questo succedeva nei primi anni settanta?
MM: No era la metà degli anni sessanta. Sono arrivato a Milano, Manzoni era appena morto, Fontana c’era ancora, le grandi gallerie milanesi erano in piena attività: Il Milione, Il Naviglio, Schwarz, la Blu…se mi ci metto erano proprio tante. Così sono impazzito: le giravo tutte, raccoglievo i cataloghi delle mostre e andavo di preferenza in quelle gallerie come L’Ariete che facevano il catalogo, andavo alla galleria del Naviglio che offriva quell’A4 piegato in due… insomma, questo era il mondo che frequentavo. Cataloghi ne ho tantissimi nella mia libreria, ogni tanto li studio e li sposto da un settore all’altro. Ci sono le classificazioni per galleria, per movimento, per zona geografica. I grandi artisti a volte hanno un reparto tutto loro.
GL: Senta, questo che mi sta raccontando ha a che fare con quello che mi ha mostrato prima per gli inviti?
MM: Sì, quello che vale per i cataloghi vale anche per gli inviti. L’invito diventa una forma di comunicazione artistica, una forma d’arte, negli anni sessanta. Prima era solo un cartoncino con il nome e il cognome dell’artista e al massimo, per le gallerie ricche, c’era la riproduzione di un quadro con la cornice. Negli anni sessanta gli artisti hanno iniziato a dire “no, l’invito non lo fate voi, lo facciamo noi” ecco taglia qui, cancella di là, piega di qua ed è nata una serie di inviti opera.
GL: Ma l’idea di catalogarli così come avviene anche nel libro con gli scritti…
MM: Nel libro, su questo argomento, c’è un capitolo intitolato Elenchi, tanto cari a Umberto Eco e Hans-Peter Feldmann, oltre che a me. Esiste un racconto per immagini di Hans-Peter Feldmann (Cent’anni): centouno fotografie di persone, nella prima una bambina di sei mesi, poi un anno, due anni…fino a cento, una vita vista attraverso le immagini dall’infanzia fino alla vecchiaia, fino alla morte. Questo elenco mi ha suggerito un racconto e una lettura con cui sono addirittura riuscito a far piangere. Far ridere con gli scritti o con le immagini è molto più facile che far piangere.
GL: L’idea della catalogazione segue sempre diversi criteri, diversi sistemi?
MM: Sì e per catalogare ognuno deve trovare il proprio metodo. Regola è regolarsi, come diceva Boetti. Ad esempio in questi mesi sto catalogando l’enorme massa di inviti di altre gallerie che ho ricevuto in tutti questi anni, finora raccolti in scatole senza ordine, se non quello cronologico. Ho cominciato a far passare gli inviti dividendoli per aree geografiche, nazioni, categorie di lavoro, gallerie, musei, anche individualmente per gli artisti più importanti. Mano a mano che passavano gli inviti stessi generavano la loro categoria di appartenenza: Arte Povera, Pop, Minimal, Fluxus, Concettuale, artisti provenienti dall’Italia, dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’Oriente… ma un invito di Carl Andre, oltre che alla sua collocazione nell’arte Minimal potrebbe stare anche nella galleria di riferimento, Konrad Fischer. Gli inviti di Warhol potrebbero andare nella sua busta, ma anche in quella della Pop Art o gallerie di riferimento, come Leo Castelli e Larry Gagosian. Dove decido di metterlo? Chi ha la prevalenza? Insomma faccio cambi continui, che sono tutti modi che uso per ritrovare le provenienze, se non adottassimo un criterio tutto sarebbe ingestibile. Il criterio adottato può naturalmente essere soggettivo ma deve essere efficace e consentirti di trovare quello che cerchi al momento in cui ne hai bisogno.
GL: E questo vale anche per gli scritti raccolti nel libro?
MM: Sì, molti degli scritti sono generati dalla corrispondenza quotidiana, oppure per richieste specifiche. Per esempio, una volta mi hanno chiesto di scrivere sulla preistoria: sono partito dall’arte dell’oggi per andare indietro e per ora sono arrivato alla preistoria; dopo andrò più avanti (quindi più indietro) se mi sarà possibile. È sempre un buon criterio per contraddirsi. Nel libro ci sono racconti seri, altri semi seri ed altri per niente. Ad esempio nel capitolo Stardust memories metto i racconti più belli all’inizio del libro così da convincere il lettore a continuare… Ti leggo questo, che associa Renzo Piano a Ettore Sottsass:
“Sono nato il 14 settembre, come Ettore Sottsass e Renzo Piano. Nessun merito, per carità, pura coincidenza, che però mi ha fatto guardare a loro come due complici, amici, più che distanti algidi maestri, e me li ha resi cari a loro insaputa.
Ettore poi (Renzo non l’ho mai incontrato) era uomo di grande affabilità, simpatia, immediatezza e aveva casa a Filicudi, cosa che comunque fa già una bella differenza. Sì, credo proprio di averlo conosciuto a Filicudi che, con Alicudi, è la più estrema delle Eolie, e anche la più hippy, e in questo senso andava benissimo per un architetto col codino che scriveva semplici pensieri corredati da una fotografia. La foto dà corpo al pensiero, lo scritto giustifica l’immagine, che altrimenti se ne starebbe sola soletta senza arte né parte. Ettore, nel suo grande viaggio in questo mondo, ha dato luce a migliaia di negativi, ai tempi del bianco e nero analogico, prima del digitale.
Tra queste migliaia una famiglia di foto viene stampata negli anni settanta e chiamata Metafore. Se non erro in greco metaphéro. Proprio quelle che Neruda spiega al postino. Ma poco fa mi è venuto un dubbio. A Paros, nelle Cicladi, vedo un camion fermo al semaforo. Sulla fiancata c’è scritto metafora, per la sorpresa rischio di finire sotto. Che sia uno scherzo? Per noi la metafora è cosa seria, anche difficile, e i greci la mettono sui camion?
Guardo su Google (oggi si fa così, anche se ho fatto greco al classico, ma ero un asino e comunque era tanto tempo fa). Ma certo! Forèin, trasportare: un trasporto di significato! D’altronde anche in latino l’irregolarissimo fero fers tuli latum ferre.
I testi delle metafore di Sottsass veicolano dunque significati, eccome. Ce n’è uno che dice: “C’è sempre una porta attraverso cui qualcuno non ti lascia passare”.
In una natura di alberi comuni, dove ti aspetteresti di veder apparire il dio Pan con lo zufolo e un codazzo di ragazzone (e Pan l’eterno che su l’erme alture / a quell’ora e nel pian solingo va) il nostro amico, famoso architetto, hippy per attitudine, fa apparire una delicata architettura, fatta di spago e bacchette, per evitare le gore della commissione edilizia. Mi immagino Ettore che carica al mattino le bacchette e lo spago in macchina e poi parte per ignote destinazione e si ferma quando gli pare, quando vede alberi pánici, buoni anche per fare pipì. Scende, mette il freno a mano (non si sa mai), guarda attorno che non ci siano quelli della commissione edilizia e in quattro e quattr’otto erige il suo edificio metaforico dove si compiono i destini dell’uomo. Costruisce la porta attraverso cui passare, alla faccia di chi ci vuol male, però poi ci ripensa e tesse una tela di spago nel passaggio: no pasarán.
Renzo Piano non l’avrebbe mai fatto, anche se nato il 14 settembre, quindi con simile DNA stellare, come me d’altronde e tanti, tanti altri.”
C’è anche un testo su Mendini:
“Oggi Mendini è scappato: non gli riusciva più di ridere come sempre aveva fatto, subito nei primi anni settanta con Lisa, “Domus” e le copertine, con la sua vicinanza all’arte, alla Milano vera e seria (“Ma non esageriamo” pareva dicesse col suo timido sorriso).
Una Milano da poco orfana di Fontana e Manzoni, ma ancora ricca di Buzzati e Montanelli, che allora era il nemico, di Natta e i polimeri, di Gabriele Basilico e Luciano Fabro che prendevano la rincorsa, di Fontana Arte e Azucena, di Beatrice Monti e Arturo, di Gio (senza accento per favore) e di Caccia, di Mari, Munari, i due Colombo, Gorni Kramer e Jannacci, Nereo Rocco e il catenaccio, il Derby e Gaber, Dario e la palazzina, mentre Armani e Fiorucci, su sponde opposte, cucivano e fatturavano capi che avrebbero dettato le linee della moda.
Ma diciamola tutta, una città da Alemagna a Motta. Mendini Alessandro (presente!) se la rideva e aveva ragione: era nato e cresciuto in una città straordinaria (anche oggi) di cui ci siamo italianamente – e sovente a torto – lamentati.
E poi c’era il mitico design milanese con Zanotta e Cini, con Gae e Cassina, con Artemide e Kartell, per non parlare di Aldo Rossi, Castiglioni, Albini, Magistretti, Busnelli e i figli di Amedeo. Ma quanti erano questi figli?! Impossibile il solo pensarlo, quando sfavillava il Salone del Mobile con De Pas, D’Urbino e Lomazzi, Pesce, Pio, Gavina che rompeva gli schemi: che grandissima bravura! Che storia con BPR ancora in pista e Citterio con le braghe corte.
C’è stato un momento di densità spaventosa, un buco nero che tutto produceva risucchiandolo in un’attrazione fatale, illustrato da Mulas, Ballo, Dondero, Alfa Castaldi, Paolo Monti.
“Non era un archistar, stava rintanato là sotto poco prima del Corvetto che pareva quasi di trovarci l’ultimo Gaber”.
Maria, basta, grazie per avermelo detto subito, sono in volo da undici ore. Sotto c’è l’Africa. Tra poco atterro. Andrò subito a Milano, dove non ci sono più i tre guastatori col sorriso: scettico per Ettore, ironico per Fornasetti, timido per Alessandro che sfarfallava coloratissimi coriandoli trasformando una ovvietà canturina in un trono per Proust. Era il suo riverente modo per dire al serissimo design che stava arrivando un vento diverso, da Memphis alle giacche di Gregorini, nato come me a Pisogne, Lago d’Iseo.
Questi guastatori della forma stavano già ponendo le basi per far scendere di sella i Serissimi – Architetti – del Sessantotto che avevano appena finito di smontare il giocattolo occupando la Triennale nel mitico Maggio (in francese Mai, ma si pronuncia mé), con Gianni-Emilio che, finalmente, aveva voce in capitolo. Ma a che capitolo eravamo rimasti? Nessuno definitivo, arrivo a Frankfurt, ronzano gli sms. Anche Carla Pellegrini. A.N.C.H.E.C.A.R.L.A.P.E.L.L.E.G.R.I.N.I. Ma no, no!
E invece. Pensare che ero, per caso e curiosità, in via della Spiga nel 1966 quando aprì la galleria con quei cataloghi larghi, lunghi e sottili che allora mi catturavano e che conservo rilegati.
“Mendini Alessandro se la rideva e aveva ragione: era nato e cresciuto in una città straordinaria (anche oggi) di cui ci siamo italianamente – e sovente a torto – lamentati.”
Con me Mendini è sempre stato di una straordinaria, immeritata generosità. Devo a lui una delle mie più belle mostre con Peter Halley, da una sua idea. Dipinge tutta la grande stanza con i suoi modi e discute con Peter l’inserimento di sei grandi opere, da vedere, semplice mente straordinaria.
Sono sempre gli altri che muoiono, grande, ovvia, intuizione di Marcel. Altrimenti non sarei qui a raccontarvela.
Compiaciuta? Sì, ma so che a lui sarebbe piaciuta. Anzi so per certo che gli piace e riesce ancora a sorridere. La sua mission, direbbero oggi, è compiuta e oggi Milano è una smart city in bluetooth, very high-tech, più spolvero, meno birignao. Non è più da bere, mangiare comunque sì. Ogni tanto un piccolo morso.
Forse non se l’aspettava e così è andato via. Non era un archistar, stava rintanato là sotto. E il coloratissimo sfarfallio di mosaici sulla via chiedeva rispetto al ritardato graffitaro, incazzato di notte e bello di giorno, dava conforto visivo al pensionato con la “Gazzetta”, segnalava la presenza agli amici, parenti, clienti che oggi spero felicemente ricordino l’Alessandro che ha davvero avuto uno straordinario passaggio in una grande città europea.
Milano con lui è cresciuta, ma lui non riusciva forse più a sorridere come una volta da quando la poesia era fuggita, gli affari erano tornati, con le conseguenze del caso. Ormai il PIL, i tassi, i bond la facevano da padroni, senza dimenticarci lo spread che, pilotato dalla BCE, terrorizzava tutti quanti.”
…beh come puoi capire quando inizio non so più dove fermarmi e sono le parole a chiamarsi l’una dopo l’altra e talvolta ne escono racconti sentiti come questo.
GL: Senta Massimo ma di tutto il mondo che ha raccontato in questo libro cosa le manca?
MM: È un mondo che non esiste più, siamo rimasti in pochi! Il prossimo libro che sto scrivendo è un libro che parla della morte, del resto bisogna fare i conti anche con lei. La morte è una cosa che l’essere vivente non può accettare, se uno pensa a come sarà da morto, e riesce a reggere il pensiero per qualche secondo, la reazione sarà quella di dirsi: “va be penso ad altro poi si vedrà”.
GL: È un pensiero quello della morte che si preferisce mettere sotto il tappetino!
MM: Si esatto lo metti sotto il tappetino e eviti di pensarci. Ho deciso di scrivere così a dieci amici e ho chiesto loro di raccontarmi che cosa pensano della loro morte!
GL: Le hanno risposto? (ride)
MM: Mi hanno mandato a quel paese e non hanno preso sul serio la domanda! (ride) Però qualcuno ha risposto, Paolo Icaro ha scritto una cosa molto bella e sto aspettando Giulio Paolini che ha promesso! Ognuno ha delle reazioni diverse. Io ho scritto la mia parte. Può darsi che esca postumo, vedremo come andrà.
GL: Speriamo di no!
MM: In tutti i casi prima o poi succede quindi… diventa postumo per forza.





