#paroladartista #intervistacritico #flaminiogualdoni
Gabriele Landi: Quando ha conosciuto Dadamaino?
Flaminio Gualdoni: ho conosciuto Dadamaino nel 1977/1978, e da quel momento ci siamo frequentati molto intensamente: mi è capitato sia di partecipare all’allestimento della Biennale del 1980 che a quella del 1990, cui la invitai in qualità di commissario del padiglione italiano. Diciamo dunque che dai “I fatti della vita” in poi per me il lavoro di Dadamaino è stata un’esperienza continua. Dada è stata una grande amica.
Gabriele Landi: come è strutturata la mostra attualmente in corso presso la Galleria Frittelli di Firenze?
Flaminio Gualdoni: vi è una prima parte che prevede degli “assaggi” storici su alcune fasi del suo lavoro per arrivare alla mostra vera e propria che si articola intorno ai lavori presentati alla Biennale di Venezia del 1990, “Il movimento delle cose”.
E’ con la “Lettera a Tell al-Zaatar” del 1976 che per me ha inizio il lavoro maturo di Dadamaino, a cui seguono “I fatti della vita” del 1978, presentati alla Biennale del 1980, e “Inconscio razionale”, culminando con il ciclo “Il movimento delle cose”. A questo ciclo fa seguito “Sein und Zeit” che è una variante in formato più ridotto del ciclo precedente ma che ne conserva la stessa intensità. La mostra quindi si concentra sull’ultimo periodo leggendolo però in termini più diacronici che strettamente didascalici.
Gabriele Landi: Il precedente storico di quest’ultima fase del lavoro dell’artista si trova nelle lettere mute le H della “Lettera a Tell al-Zaatar”.
Flaminio Gualdoni: Questo lavoro ha una sua origine nella fortissima militanza politica che ha sempre caratterizzato il lavoro di Dada, la sua partecipazione emotiva al massacro dei Palestinesi a Tell al-Zaatar è stata una cosa terribile e lei ha reagito facendo una cosa che non aveva mai fatto, una specie di protesta muta da cui è nato un alfabeto insignificante che non intende diventare un sistema, un codice intellegibile, ma è proprio un modo di fare della scrittura senza trasformarla in comunicazione che poi la ha portata a “Il movimento delle cose” con una continuità di pensiero secondo me assolutamente straordinaria.
Gabriele Landi: questa caratteristica della ripetizione del segno si trova anche in alcuni lavori precedenti mi sembra, per esempio in mostra ci sono le “Costellazioni”, anche se ho l’impressione che nelle costellazioni per esempio ci sia una vena poetica che nei lavori successivi diventa altro, ho forse ho preso un abbaglio?
Flaminio Gualdoni: non è un abbaglio. Le “Costellazioni” sono una specie di variante poetica, infatti in questi lavori il segno perde completamente la sua memoria a vantaggio di un uso diverso dello spazio e introduce anche l’elemento del colore, inteso come monocromia dolce. Nelle “Costellazioni” Dada non usa il nero, che per lei era una specie di cifra stilistica che porterà avanti per tutta la vita. Quello di Dada è proprio un graphein, un segnare. Nelle “Costellazioni” cercava come una sorta di respirazione del foglio, un abbandono per lei abbastanza inconsueto. Quando torna al nero allora si ritrova la durezza, la secchezza del suo segnare che però ne “Il movimento delle cose” ha più a che fare con il tempo. Secondo me la caratteristica dei grandi rotoli, io li chiamo così perché è così che sono conservati, è il tempo, e devo dire che uno dei maggiori pregi di questa mostra a Firenze è proprio nello spazio della galleria Frittelli che consente di esporre in questo modo così esteso il lavoro di Dada dandogli di fatto una consistenza che diversamente non potrebbe avere.
Gabriele Landi: debbo essere sincero, sono rimasto molto colpito anche io dallo spazio, non ero mai stato in quella galleria e devo dire che mi ha veramente sorpreso la vastità degli spazi…
Flaminio Gualdoni: beh, in qualche modo era una mostra che voleva andare lì (ride), quello è il suo luogo naturale. Non ci si fa spesso molto caso ma in questi lavori Dada lavora su un continuo che alla fine è un continuo temporale, è il tempo del suo vivere che si identifica totalmente con il tempo del fare. Per Dada significa anche passare da una dimensione, da un atteggiamento in cui in qualche modo lei passa dalla testimonianza dei fatti all’espressione di come lei vive questi fatti. Nel ciclo ”I fatti della vita” assistiamo ad un movimento quasi diaristico, ne “Il movimento delle cose” invece siamo di fronte al tempo della sua vita che si svolge davanti ai nostri occhi. Dada stessa lo sintetizza in una bellissima espressione: “Con la pazienza che hanno i rivoluzionari e le donne”: il suo lavoro è proprio fatto con questa pazienza.
Gabriele Landi: un altro aspetto che trovo assolutamente incredibile è il fatto che lei lavorasse in uno spazio piccolo che la obbligava a srotolare a piccole porzioni i rotoli su cui lavorava di fatto impedendole di avere una visione d’insieme di quello che stava facendo. Sembra quasi una cosa impossibile non poter avere una visione d’insieme di un lavoro così grande, come è possibile?
Flaminio Gualdoni: visto che lei è un liciniano le risponderò con una frase di Osvaldo Licini: ”Par miracle!” (ride). E’ possibile perché Dada si racconta vivere facendo. In questa chiave non è importante che ci sia un prima un dopo, sono necessariamente connessi perché sono il fluire del tempo che è poi il fluire di questi segni che stabiliscono fra loro delle aggregazioni che stanno fra il cosmico ed il biologico. Tutto ciò è straordinario perché è un lavoro che lei fa “alla cieca”. C’è questa cosa che io trovo eccezionale, l’abat-jour da tavolo determina anche una condizione luminosa parziale, quello che lei vede è solo quello che la lampada illumina. Mano a mano che il mordente ha finito di lavorare la parte segnata scompare per lasciare spazio ad una nuova parte. C’è qualcosa in questo flusso di lavoro che può essere imparentato con la musica, di fatto l’artista segue un ritmo che permette poi al lavoro quando ne abbiamo una visione d’insieme di presentarsi in modo unitario senza stacchi bruschi o interruzioni. Ci sono delle variazioni, le variazioni dei flussi emotivi e fisici, guardando bene ci sono dei momenti in cui ti rendi conto che il suo braccio è più stanco e momenti in cui l’artista è più energetica: come direbbe René de Solier, è “la biologia dell’atto di scrivere, dipingere e disegnare”. Nel lavoro di Dada c’è la biologia del fare, che in questi lavori è molto forte, e che diventa la sua condizione esistenziale, tanto che gli altri lavori si intitolano “Sein und Zeit”, prendono il titolo dal saggio di Martin Heidegger in cui il filosofo si domanda che cosa è l’essere. Per Dada essere, sentirsi essere, è un fatto sia biologico sia esistenziale complesso che passa attraverso questo segnare quindi attraverso la biologia dell’atto. In quello che Dada fa c’è una parte proprio legata al suo sentimento di sé e del suo corpo e questo è un fatto secondo me assolutamente straordinario. Anche confrontando il lavoro di Dadamaino con quello di altri artisti che si sono mossi in modo analogo come Roman Opalka e Hanne Darboven… c’è sempre un implicazione di tipo significativo, di codice scritturale: ma negli ultimi lavori Dada si muove nell’idea della trasparenza, anche questa è un’idea strepitosa, cioè quella di scrivere su un supporto traslucido. Dadamaino non scrive più su una superfice ma attraverso la trasparenza del supporto fa galleggiare i segni nell’aria: l’unico obbligo che le resta è nell’altezza del supporto che li accoglie, 122 cm, perché questa è la dimensione del rotolo (ride).
Gabriele Landi: che tipo di materiale ha impiegato Dadamaino per fare questi lavori? Sembra lucido ma lucido non è!
Flaminio Gualdoni: è un polietilene che da una parte è opaco e dall’altra è lucido. Dada scriveva indifferentemente su un lato o sull’altro, dunque non gliene frega nulla del materiale. Se ci si pensa, è stato proprio il materiale a farle venire in mente la possibilità di realizzare questa serie di opere.
L’idea di usare il rotolo nella sua integrità mi piace molto: mi fa venire in mente il lavoro di Piero Manzoni sulle “Linee”, sette metri, dodici metri, un trancio… poi lui a differenza di Dada le arrotolava e le metteva nei cilindri ma quello che li accomuna è il fatto che entrambi usando delle dimensioni enormi mettevano in atto l’impossibilità per lo spettatore di abbracciare con un solo sguardo l’integrità del lavoro.
Gabriele Landi: mi viene in mente Walter De Maria che nel deserto degli Stati Uniti realizzava delle sculture lunghe chilometri e che lo spettatore se voleva vederle tutte doveva camminare per diverse ore lanciando quindi anche una sfida al fruitore.
Flaminio Gualdoni: sì, una cosa del genere. Per me in questi lavori è molto implicata anche la biologia dello spettatore. Si può essere spettatore in tanti modi, lo sappiamo bene, gli puoi dare anche un’occhiata e poi fottertene… ma se vuoi avere un’esperienza effettiva del suo lavoro devi dedicargli un tempo della tua vita moltiplicando in questo modo il tempo di vita che ci ha messo l’artista a realizzarlo.
Gabriele Landi: nella scelta dell’utilizzo del rotolo possiamo vedere una volontà di misurarsi con la dimensione per esempio dei rotoli di papiro egizi…
Flaminio Gualdoni: no direi di no, siamo completamente fuori dalla prospettiva della scrittura. Dada per tutti “I fatti della vita” ha sempre lavorato partendo dall’angolo in alto a sinistra per finire nell’angolo in basso a destra mantenendo il codice della scrittura. Ne “Il movimento delle cose” no, c’è un’altra dimensione, il corpo, o meglio lo spazio trascende le tue capacità fisiche e quindi in qualche modo ti costringe a mutare atteggiamento e pensiero.

Il movimento delle cose
a cura di Flaminio Gualdoni
Fritelli Arte Contemporanea, Firenze
Veduta della mostra

Il movimento delle cose
a cura di Flaminio Gualdoni
Fritelli Arte Contemporanea, Firenze
Veduta della mostra

Il movimento delle cose
a cura di Flaminio Gualdoni
Fritelli Arte Contemporanea, Firenze
Veduta della mostra

Il movimento delle cose
a cura di Flaminio Gualdoni
Fritelli Arte Contemporanea, Firenze
Veduta della mostra

Il movimento delle cose
a cura di Flaminio Gualdoni
Fritelli Arte Contemporanea, Firenze
Veduta della mostra

Il movimento delle cose
a cura di Flaminio Gualdoni
Fritelli Arte Contemporanea, Firenze
Veduta della mostra

Il movimento delle cose
a cura di Flaminio Gualdoni
Fritelli Arte Contemporanea, Firenze
Veduta della mostra

Il movimento delle cose
a cura di Flaminio Gualdoni
Fritelli Arte Contemporanea, Firenze
Veduta della mostra
