#paroladartista#andreatagliapietra#intervistaartista
Gabriele Landi: Ciao Andrea, quando hai cominciato a capire che l’arte sarebbe stata per te una via inrinunciabile?
Andrea Tagliapietra: Non mi sono mai posto questa domanda perchè l’approccio al mondo dell’arte è avvenuto molto presto e in maniera naturale. Abitando in un’isola come Burano, piena di luce e colori,
da bambino era facile incontrare sul bordo dei canali pittori che dipingevano en plei air. Proprio uno di questi, un tal Sivio Consadori venne ad abitare vicino a casa mia. Io rimanevo incantato ad osservare la naturalezza con la quale faceva emergere i ritratti dalla tela, finchè cominciai a mostrargli i miei disegni che cominciavo a ‘sporcare’ con la pittura. Avevo circa una decina d’anni e da allora non ho più smesso.
Durante l’adolescenza, poi, ero diventato piuttosto bravo e molti coetanei mi chiedevano di fare dei disegni o dei loghi sui loro barchini. Ero orgoglioso di vedere sfrecciare in laguna le mie creazioni che ornavano i fianchi o la prua dei velocissimi barchini.
A conti fatti, credo che tutte le tappe della mia vita siano state costellate di un ‘fare’ creativo che mi ha spinto spontaneamente dentro il mondo dell’arte.”
G.L.: Hai frequantato il Liceo Artistico e l’Accademia?
A.T.: No, infatti credo che la mia formazione sia più di ‘bottega’.
Sebbene all’epoca mi iscrissi all’istituto d’arte dove l’indirizzo pittorico era già al completo, mi ritrovai a frequentare arte del tessuto con la conseguenza di marinare tutte le lezioni ad esclusione delle ore di disegno. Il passo successivo fu iscrivermi ai corsi di pittura della scuola internazionale di grafica per colmare le carenze di anatomia del disegno dove conobbi l’artista Silvestro Lodi. Frequentai i corsi di nudo nel suo studio spinto dalla necessità di rappresentare i volumi del corpo dal vivo.
Da lì in poi ho cominciato a sperimentare tecniche e materiali senza alcun vincolo formale interessato esclusivamente alla loro energia comunicativa.
G.L.: Hai quindi imparato più cose sulla strada che porta a scuola che non a scuola?
A.T.: Entrambe le strade sono state necessarie. Nel percorso scolastico ho imparato cose indispensabili che a tempo debito ho cucito e scucito a seconda delle necessità espressive del momento. Il tutto in piena autonomia senza troppe regole da seguire. Provavo e riprovavo finché non ero soddisfatto del risultato.
G.L.: Che importanza ha in quello che fai l’idea del corpo?
A.T.: Il corpo è il gancio trainante di ogni mio progetto. Il corpo, soprattutto, come contenitore di un’interiorità che cerco di indagare. Trovo che al suo interno ci sia tutto quello di cui ho bisogno: armonia e disarmonia delle forme, luci e ombre, spazi pieni e vuoti. Il corpo come ‘campo di battaglia’ all’interno del quale apro e chiudo un confine di scrittura. Molto spesso parto da un’immagine del corpo definita, tipo una fotografia scattata da me di qualcuno che conosco, che utilizzo come base d’indagine per poi stravolgere completamente il soggetto. Non mi interessa tanto la rappresentazione della realtà ma piuttosto l’evocazione che mi viene suggerita. Spesso trasformo un corpo dalle forme armoniose in uno mutilato. Ho lavorato per molto tempo sul corpo offeso, sulla relazione difficile che le persone hanno con il proprio corpo, sulla questione identitaria. C’è tanto di quel materiale che si potrebbe lavorare una vita intera. Poi, inevitabilmente ho bisogno di cambiare dimensione e guardare altrove.
Attualmente nei miei lavori c’è una forte sessualità. Corpi nudi, stravolti dalla vita e dagli eccessi sui quali intervengo con cancellazioni. L’intervento gestuale è finalizzato a stravolgere l’abbondanza di figuratività in modo da lasciare più respiro all’immagine. Mi piace tentare di stravolgere l’idea comune di normatività attraverso la rappresentazione del corpo. D’altronde, molto spesso, le nostre convinzioni sono il frutto di una schietta costruzione culturale.
G.L.: Il colore e il segno che ruolo giocano in quello che fai?
A.T.: Diciamo che colore-segno-materia sono i tre elementi fondamentali della mia pittura. Principalmente nel colore cerco molto i contrasti, le tinte forti; ad esempio gli incarnati mi servono a descrivere non solo il corpo ma piuttosto una dimensione interiore. Uso una tavolozza con pochi colori ma con tanta materia. Del colore mi attrae la sua ‘pomatosità’, quando affondo il pennello o lo straccio nel colore è come se affondassi i piedi nel fango della barena.
Il segno è spesso vittima della gestualità libera e fa parte dell’umore del dipinto. Cancello, esco dai bordi delle linee d’ingombro, sottolineo i dettagli che mi interessano, come se stessi intonando le voci di un coro polifonico.
G.L.: l’idea dell’identità e della sua ambiguità sia sul piano sessuale che psicologico sembra essere uno dei temi fondanti del tuo lavoro. Ricerchi anche la provocazione?
A.T.: La questione identitaria spesso emerge spontaneamente. La primissima parte del mio lavoro ha inizio osservando le persone, i loro corpi, le abitudini, le relazioni interpersonali. Da qui nascono le suggestioni per ogni nuovo lavoro o ciclo di dipinti. Dipingo la realtà, e spesso vedo corpi che non rispettano le necessità o le aspettative individuali rivelando disagio e insoddisfazione.
La dimensione sessuale mi attira altrettanto, è implicita nell’essere umano e mi permette di divertirmi attraverso molteplici sfaccettature. Quello che mi interessa, però, non è tanto la questione ideologica ma dipingere quello che vedo. E il mio modo di farlo è attraverso una pittura che non cerca il piacere dello sguardo ma, semmai, mostra qualche parte ‘scomoda’ dell’individuo.
Non cerco la provocazione, ma può succedere che in corso d’opera emergano alcuni aspetti ‘croccanti’ della realtà che sento il bisogno di accentuare. Di solito non è di premeditato.
G.L.: Lavorando per cicli dipingi più quadri insieme o uno alla volta racontami il tuo modo di lavorare?
A.T.: Quando incontro un soggetto o un’immagine che mi attira lavoro esclusivamente su quella. Dapprima stendo un ipotetico fondo su cui inserire la figura e poi mi concentro sul corpo principale del quadro.
L’ultima fase è la più interessante: accentuo il contrasto tra caldi e freddi, cancello parti, intervengo nuovamente con più spessore materico, aggiungo elementi quali segni, scritte o qualsiasi altra cosa che mi sembri indispensabile per restituire l’idea che è nata durante il lavoro. Infatti spesso succedere che nella fase iniziale io abbia un’idea dello sviluppo, ma durante l’esecuzione il quadro prenda una propria vita autonoma e, in quel caso, non posso far altro che assecondarla.
Se un’idea mi si incolla sulla pelle devo continuare a raccontarla attraverso dei cicli pittorici, almeno finché non esaurisco l’attrazione continuo a lavorarci usando tutto quello che mi passa par la testa.
Nei cicli pittorici degli strappi (quadri di piccolo formato di tela strappata sui quali intervengo con una colata di resina epossidica) il lavoro è differente. Strappo dei pezzi di tela 30×30 cm sui quali dipingo sul lato rovescio per avere un assorbimento diverso del colore. La colata di resina avviene simultaneamente su tutti i pezzi e poi, eventualmente, intervengo di nuovo dipingendo sopra la resina.
In quest’ultima fase devo avere tutti i lavori davanti come se fossero un’unica sequenza e intervenire dove mi pare il caso.
G.L.: Lavori tutto alla prima o lasci “riposare” i quadri e li riprendi in un secondo momento?
A.T.: Quand’ero più giovane lavoravo solo con ‘buona la prima’, non interagivo in alcun modo su un lavoro considerato finito. Ora è il contrario, innanzitutto ho bisogno di lasciare decantare il quadro per alcuni giorni, spesso cominciandone uno nuovo in modo da distrarmi dal soggetto. Una volta uscito dall’ipnosi creativa lo riprendo per mano vedendolo con occhi diversi e con il giusto distacco. In questo momento capisco veramente se è il caso di intervenire nuovamente o lasciarlo libero di esistere.
Ci sono quadri che nascono in poche ore e altri che si fanno corteggiare a lungo, in questo caso continuo a lavorarci fino a quando sono soddisfatto oppure li accantono, diventeranno la base per un altro dipinto. Da qualche tempo, infatti, ho ripreso alcuni quadri abbandonati in studio dando loro una seconda vita. Cancello quasi tutto fuorché parti e dettagli che trovo interessanti iniziando un nuovo atto da mettere in scena.
G.L.: Nella scultura lavori allo stesso modo?
A.T.: Direi di no. L’attenzione per la scultura è nata come sviluppo della pittura nel senso che, ad un certo punto, sentivo la necessità di toccare con mano i volumi e, ancora di più, di muovere la materia.
Il progetto di partenza è molto limpido, se decido di fare più soggetti mi dedico completamente ad ogni singolo pezzo dall’inizio alla fine.
Come se fosse pittura, disegno la sagoma con il ferro cotto elettrosaldato e poi applico i materiali con i quali ho deciso di lavorare. La scelta del materiale dipende da quello che ho necessità di eseguire, se decido di relazionarmi con il territorio o con l’ambiente spesso prediligo la guaina catramata che già da sola mi pare eloquente. Se ho necessità di maggior controllo della materia lavoro con ferro, gesso, cemento, juta come base e poi intervengo con elementi quali alghe di barena, vetro di Murano o qualsiasi altra cosa mi pare opportuna. Soddisfo ogni necessità di sperimentazione senza formalizzarmi. Se non funziona, distruggo e ricomincio da capo modificando le interazioni con i materiali.
G.L.: Il disegno che ruolo gioca in tutto ciò?
A.T.: Uso molto il disegno in fase di progettazione cioè quando non ho ancora delle immagini a disposizione tipo fotografie o altro, questo mi aiuta a focalizzare l’idea compositiva a cui successivamente darò forma. In fase di realizzazione, utilizzando per lo più immagini fotografiche il disegno mi serve per abbozzare i corpi sulla tela o intuirne le proporzioni, ma si tratta di pochi segni che tracciano gli ingombri. In alcuni quadri, soprattutto nelle piccole dimensioni, inizio direttamente a dipingere, magari traccio una sagoma leggera con il pennello ma tutta la mia attenzione è rivolta nel far nascere la figura.
Al contrario, può succedere che finito un dipinto senta il bisogno di intervenire con elementi disegnati quali silhouette di oggetti o di parti del corpo, come allusioni che lasciano spazio all’immaginazione.
Andrea Tagliapietra nasce a Venezia nel 1976 e attualmente vive e lavora a Burano. La sua ricerca spazia, fin dagli esordi, dalla pittura alla scultura interagendo, attualmente, con performance e video arte. Il topos delle sue opere è legato al senso di inappartenenza che frequentemente contraddistingue l’essere umano.








