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Gabriele Landi: Ciao Chiara, spesso succede che il lavoro di un’artista affondi le sue radici nella mitica età dell’infanzia è così anche per te?
Chiara Lecca: Ciao Gabriele, ti confermo che è così anche per me, anzi definirei quest’età addirittura mitologica perché è il lasso di tempo in cui affrontiamo il mondo con lo sguardo arcaico ereditato da anni di evoluzione, dove i parametri dettati dalla società in cui trascorreremo il resto della nostra vita, sono ancora latenti. L’età dell’infanzia è quella delle grandi paure e delle grandi meraviglie. Ecco i motivi per cui trovo questo momento così affascinante, non solo come artista ma come persona. Ho trascorso la mia infanzia sugli appennini romagnoli, nella tenuta agricola di famiglia dove tuttora vivo, e ne conservo preziosi ricordi. Come ad esempio il senso di libertà e di scoperta: assieme a mio fratello e ai miei cugini, dedicavo intere giornate all’esplorazione dei territori e alla creazione di nuove avventure, attorno non c’erano cancelli o recinzioni per cui la sensazione era quella di poter raggiungere qualunque luogo potessimo immaginare. Anche gli odori erano importanti e molteplici, dai più sublimi ai più nauseabondi, tutti sono rimasti nella mia memoria. C’era poi – e c’è tuttora- il gregge, mi confrontavo quindi allo stesso modo con il mondo animale e vegetale, oltre che con quello umano. Avendo a che fare con gli animali, la nascita e la morte degli esseri viventi scandiva di frequente le mie giornate. Questa è l’eredità della mia famiglia paterna che da più generazioni si occupa di pastorizia dove i cicli della vita sono legati a quelli della natura. Tutti questi aspetti hanno contribuito a creare il mio immaginario di oggi.
G.L.: All’epoca disegnavi dipingevi…? Quando e come sei entrata in contatto con l’espressione della tua creatività?
C. L.: Disegnavo davvero moltissimo, inoltre amavo assemblare i materiali: costruivo un po’ di tutto, dai collages più assurdi, ai piccoli oggetti fino a rocambolesche architetture in cui potermi rifugiare. Mia madre ha studiato all’Istituto d’Arte per la Ceramica di Faenza per cui anche il mondo creativo è stato una componente importante della mia infanzia. Ho poi sviluppato il linguaggio che porto avanti tutt’ora durante gli anni dell’ Accademia di Belle Arti che ho frequentato a Bologna. A quel periodo risalgono i primi esperimenti con materie organiche, nati durante le lezioni di Anatomia Artistica e Pittura, perché avevo avvertito l’esigenza di parlare di ciò che conoscevo meglio ossia la realtà attorno a me. All’epoca ancora non conoscevo la tecnica della tassidermia infatti ero solita conservare i miei piccoli assemblages nel freezer di casa e li trasportavo grazie ad una borsa frigo.
G.L.: Ha mai avuto importanza in quello che fai l’aspetto alchemico ? Mi viene in mente il Principe di San Severo ed i suoi esperimenti sulla trasformazione della materia organica…
C. L.: L’aspetto alchemico non ha mai avuto molta importanza, sono una persona piuttosto pratica, i processi che utilizzo sulla materia organica sono principalmente un mezzo e difficilmente un fine. Certamente però personaggi come Raimondo di Sangro sono molto interessanti, come anche le antiche wunderkammer, grazie al loro potere immaginifico. Probabilmente in quello che faccio ha più importanza l’aspetto legato alla trasformazione della materia ad uso alimentare come ad esempio quello connesso alla conservazione dei cibi nel tempo.
G.L.: In quello che fai ha importanza l’idea di mettere in scena?
C. L.: Quello che mi preme è tradurre una sensazione intima in qualcosa di reale, fisico. Di solito si tratta di sensazioni che non riesco a riassumere in parole, mentre la materia mi da molte più possibilità. Con il mio lavoro provo a veicolare un effetto visivo in grado di restituire all’esterno ciò che provo. Si tratta di un modo di tradurre la realtà. Mi viene in mente Kounellis, un artista che amo, e il suo desiderio di tradurre la realtà nel modo più estremo. Per questo l’idea di mettere in scena ha sicuramente importanza ma è la conseguenza di un processo intimo e personale, è l’ultima scena di un dialogo nato molto prima. E’ il tentativo di restituire le tragedie _ intese come i punti irrisolti del nostro quotidiano su cui ancora c’è necessità di riflettere _ su un palcoscenico dettato dalla società in cui viviamo. A mio avviso il lavoro di un’artista diviene completo solo quando avviene un confronto con un ‘pubblico’.
G.L.: La dimensione immaginifica si lega anche ad un aspetto narrativo?
C. L.: Direi di sì, l’aspetto narrativo è importante. Come un romanzo sempre in evoluzione a cui aggiungere un nuovo tassello ad ogni capitolo. Si percepisce il contenuto facendo fluire la narrazione. La stessa narrazione poi corre a pari passo con un altro fattore determinante, ovvero lo scorrere del tempo. Penso che un lavoro debba essere letto in più tempi partendo dal contesto installativo, passando ai materiali, ai dettagli che lo compongono, ai contenuti latenti, … . Ci stiamo abituando a guardare tutto con velocità per cui la conquista più grande è fare sì che, chi fruisce del tuo lavoro, resti con esso il più possibile. Trovo che il lungo processo di realizzazione di un’opera sia importante quanto il risultato finale perché è utile a stemperare gli impulsi che le hanno dato vita. E questo tempo si riflette direttamente sulla sua lettura, che necessita di più sguardi, più livelli di riflessione, di tempi prolungati. In realtà la mia priorità non sta nel fatto che un allestimento possa essere immediatamente compreso, piuttosto mi interessa creare uno stato di tensione. Questo porta chi ne fruisce a tenerlo con sé anche dopo l’esperienza visiva, comporta domande, provoca il desiderio di una riflessione più profonda, pesca nell’inconscio. Un esempio può essere “Lapped Rocks” (2017) un’installazione in cui cubi di mangime minerale sono stati modificati dagli animali in base al tempo di permanenza con essi. Questo tipo di mangime è leccato dal bestiame in stalla per attingere all’apporto di sali minerali necessari al sostentamento L’elemento cardine è quindi il tempo di stasi dei blocchi con l’animale e il mio ruolo è stato quello di ponderare questo tempo. La dimensione narrativa in questo caso è davvero importante, tutto porta alla dilatazione temporale, ad un qualcosa all’apparenza eterno o ciclico.
G.L.: Esiste anche un lato ironico in quello che fai?
C. L.: Certo che sì, una sfumatura ironica accompagna, fin dall’inizio, la maggior parte dei miei lavori. Per alcuni di essi è latente, in altri palese ma in linea di massima è sempre presente. Si tratta di un modo per innescare una narrazione, oppure, come fosse una catapulta, la uso per arrivare ad un punto di vista imprevisto, è sicuramente utile per parlare di aspetti scomodi. Principalmente però l’ironia è sopravvivenza, nella vita come nell’arte.
Chiara Lecca nasce nel 1977 a Modigliana (Forlì- Cesena), dove vive e lavora. Il suo lavoro è presentato in varie istituzioni in Italia e in Europa tra cui nel 2018 all’Istituto Italiano di Cultura di Madrid, nel 2012 presso la contea di Kassel in occasione di EUARCA –International European Art Camp– e nel 2008 presso la Fondazione Spinola Banna per l’Arte di Torino. Sue mostre personali si sono tenute in istituzioni e musei tra cui: Collezioni Comunali D’Arte per Art City Polis Bologna nel 2017, Museo Carlo Zauli, Faenza nel 2017, Fondazione Ghisla Art Collection (Svizzera) nel 2016, Naturkundemuseum Ottoneum, Kassel (Germania) nel 2015, Villa Rusconi di Castano Primo, Milano nel 2013, Palazzo del Monte, Faenza nel 2013, MAR Museo d’Arte della Città di Ravenna nel 2010. Ha esposto le sue opere in numerosi musei pubblici e gallerie private in Italia ed Europa quali: Palazzo San Giacomo Russi RA nel 2022, Monitor Gallery Pereto AQ nel 2021, MACRO Roma nel 2019, Vestfossen Kunstlaboratorium (Norvegia) nel 2018, Schloss Ambras Innsbruck (Austria) e Galleria Fumagalli Milano nel 2017, Palazzo Reale Milano, Museum Schloss Moyland (Germania), Castle Gaasbeek (Belgio) nel 2016, Museo Poldi Pezzoli e Gallerie d’Italia, Villa Necchi Campiglio a Milano nel 2013, MIC Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza nel 2015, 2013 e 2012, Spazio Thetis Venezia nel 2011, Kunst Meran/o Arte nel 2009, Galleria Fumagalli Bergamo 2008, PROG Zentru fur Kulturproduktion (Svizzera) nel 2008, Castel Sant’Elmo Napoli nel 2005. Nel 2016 è finalista al XVII Premio Cairo con l’opera Dark Still Life. Sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private tra le quali: Palazzo della contea di Kassel (Germania), Naturkundemuseum Ottoneum, Kassel (Germania), Mus.t Museo Settore Territorio (Faenza), Ghisla Art Collection (Svizzera), Kunst Meran/o Arte (Merano). Chiara Lecca collabora con Galleria Fumagalli Milano, dove in ottobre 2022 prenderà parte al progetto “Coherency in Diversity” a cura di Lóránd Hegyi. Nel 2020 fonda il Collettivo Clarulecis.







